Cultura | Cinema

House of Gucci è un film bruttissimo

Nonostante il cast stellare e i costumi di archivio, il film di Ridley Scott riduce a farsa una storia tragica e unica.

di Silvia Schirinzi

Lady Gaga in una scena di "House of Gucci", al cinema dal 16 dicembre

Un po’ ci speravamo, che ne valesse la pena. Dopo le foto di Lady Gaga e Adam Driver che mangiano il panzerotto di Luini a Milano, le foto di lei con il colbacco in testa a Cortina d’Ampezzo, le foto di loro due sul lago di Como: è vero che dal trailer si intuiva non sarebbe stato proprio un capolavoro, ma probabilmente nessuno era pronto al fatto che House of Gucci fosse un film così brutto. Davvero, davvero, brutto. Bruttissimo. È arrivato nelle sale lo scorso 16 dicembre e gli audio che già giravano sui TikTok – «Father, Son and House of Gucci» ma anche «I don’t consider myself a particularly ethical person but I am fair» – e che pure promettevano una qualche scena iconica, sono affogati in un film che è invece troppo lungo (più di due ore), confuso e, soprattutto, piatto. Una storia, quella di Patrizia Reggiani, che Lady Gaga stessa ha presentato alla prima di Milano di metà novembre (affollatissima, piovosissima, che si è conclusa con lei che riprende su Instagram la Guardia di Finanza in tangenziale e dice “Che cazzo succede”, almeno questo lo abbiamo ottenuto) come la storia di una donna controversa, che ha fatto una cosa orribile ma non giudichiamola, l’invidia sociale è un sentimento reale (la traduzione, specifico, non è letterale), dedico questo film a tutte le donne italiane che hanno sofferto, viva la famiglia, la pizza e le borse di Gucci (anche qui, traduzione libera).

Purtroppo, però, di quella storia, nel film, c’è veramente poco. Scott si è basato sull’omonimo libro di Sara Gay Forden, edito in Italia da Garzanti, che è un’ottima ricostruzione di come andarono i fatti, ma nella trasposizione cinematografica la complessità si è persa e lo spettatore deve sorbirsi la versione macchiettistica di una vicenda che ha effettivamente unito «moda, avidità e crimine», come recita lo strillo di copertina, e che per gli italiani è stato un caso di cronaca ma anche un po’ un’epopea nazionale. Ha scritto A. O. Scott sul New York Times che la cosa più gentile e allo stesso tempo più crudele che si può dire di House of Gucci è che sarebbe dovuto essere un film italiano, e invece è un film americano con attori americani, seppur bravissimi che, anche quando sono di origini italiane, falliscono in maniera spettacolare nel sembrare, manco a dirlo, italiani. Lady Gaga ha passato mesi a studiare e a perfezionare il suo accento, con il risultato di sembrare russa per tutto il film – lo ha detto la dialogue coach del film, mica noi – mentre Al Pacino arriva la mattina e saluta con “Buonasera”, e nessuno s’è sentito di correggerlo (e sì, ci sono molti altri errori, compresa una copia del Foglio nelle mani di Maurizio Gucci quando Il Foglio non era stato ancora fondato). Adam Driver, dal canto suo, avrà anche apprezzato i panzerotti di Luini ma non riesce a dire “grazie” pronunciando la “a” neanche una volta in più di due, interminabili, ore, quindi la domanda è legittima: perché non fargli dire “Thank you” e chiuderla lì?

Al contrario di quello che evidentemente pensa Scott, avremmo volentieri esercitato il nostro diritto alla sospensione dell’incredulità e accettato di buon grado un film in inglese su una famiglia che più italiana non si può, purché fosse recitato bene. E invece c’è Jared Leto, che interpreta Paolo Gucci, e che è talmente truccato che qualcuno ha iniziato a chiedersi se a Hollywood non stia un po’ sfuggendo di mano, questa cosa del trucco di scena, ed è talmente esagerato nel voler sembrare italiano – con il gesticolare frenetico delle mani, con le smorfie, con la cadenza lagnosa – da diventare insopportabile. Al limite dell’offensivo, quasi, ma non ci addentreremo qui nella polemica del “razzismo” contro gli italiani perché 1) non esiste, anche se storicamente gli immigrati italiani sono stati soggetti a discriminazione, come tutti gli immigrati; 2) gli italoamericani sono oggi un gruppo a sé completamente assimilato nella società americana e, in quel contesto, non possono dirsi vittime di razzismo sistemico come lo sono altre minoranze. Detto questo, è lampante lo sguardo americano, hollywoodiano, su tutto ciò che americano non è. Ovvero quella glamourizzazione coatta che c’era anche in tutti i grandi film con protagonisti gli italoamericani, soprattutto quelli che hanno elevato i mafiosi a icone d’onore e di stile agli occhi del mondo (iattura di cui ancora non ci liberiamo), ma con la sola differenza che quelli, almeno, erano grandi film, e questo non lo è. Nonostante i costumi d’archivio, messi a disposizione da Gucci (unico legame del marchio con l’operazione) e nonostante il regista e il cast, che sono di prim’ordine. 

Non c’è il Creole, il veliero maledetto, non c’è la giusta enfasi sull’arresto di Patrizia Reggiani in pelliccia di visone (al suo livello, probabilmente, solo Avon Barksdale di bianco vestito in The Wire), non c’è la sua permanenza al San Vittore, da lei ribattezzato Victor’s Residence, dove aveva sostituito le visite familiari con gli appuntamenti con l’estetista e il parrucchiere, perché tanto nella sua famiglia nessuno voleva saperne di lei, ma soprattutto non c’è un’indagine convincente del dramma familiare dei ricchi, sia di quelli che lo sono dalla nascita sia quelli che lo sono diventati con il matrimonio, e le beghe sull’eredità e le comparsate della Finanza che pure si vedono non bastano a renderne l’intricato materiale umano. Anche se la maga Salma Hayek/Pina Auriemma in piumino cento grammi è un’immagine che effettivamente vogliamo ricordare del film (se non altro per il meta-contesto: è pur sempre la moglie di François-Henri Pinault, che oggi possiede il marchio Gucci), le vicende degli esecutori materiali Benedetto Ceraulo e Orazio Cicala rimangono solo accennate, quando invece avrebbero aggiunto un altro livello di surreale al racconto. Oltre al grande rammarico – innanzitutto che nessun regista italiano abbia mai voluto raccontare questa storia, ennesima riprova dell’allergia culturale del nostro Paese nei confronti della moda – rimane un’unica certezza, e cioè che gli sceneggiatori di Succession avrebbero fatto molto meglio.