Cultura | Dal numero

Kyiv sopravvive nella musica di Heinali

Tutto costruito con i suoni della città registrati prima dell'invasione russa, Kyiv Eternal è un album, una capsula del tempo e strumento per relazionarsi con il trauma della guerra: ne abbiamo parlato con l'autore, il compositore ucraino Heinali.

di Marco Bianchessi

Prima dell’invasione russa, Heinali, nome d’arte di Oleh Shpudeiko, compositore ucraino classe 1985, se ne andava in giro per Kiev a registrare i suoni urbani. Quell’hobby è diventato poi uno dei dischi più strani e commoventi del 2023: Kyiv Eternal¸ memoria sonora di una città che non sarà mai più la stessa, ma anche strumento per relazionarsi con il trauma della guerra. L’occasione per incontrarlo è stata la sua partecipazione all’ultima edizione del Club2Club Festival a Torino (a fine novembre ci ha poi raggiunti a Milano per partecipare con un live set a Fuori orario, l’edizione 2023 di Studio in Triennale). 

Quando hai iniziato a registrare i suoni di Kiev?
Nel 2011-2012 comprai il mio primo registratore tascabile, con cui iniziai a registrare suoni intorno a me. Si trattava di un’esperienza nuova e diversa, soprattutto perché erano registrazioni fatte tramite una macchina, non ascoltate con un orecchio umano. Quindi ho iniziato a registrare di tutto in modo piuttosto diretto, e nel giro di pochi anni avevo diversi progetti. Si trattava però di lavori che non erano ufficiali, quanto piuttosto di side-project. 

Si trattava quindi di cose fatte per puro divertimento, senza l’ambizione di diventare un vero e proprio album.
Direi di sì, anche se poi sono stati molto utili per alcune installazioni sonore che ho realizzato. Ma la mia pratica è molto diversa, non ha niente a che vedere con musica registrata in questo modo o con progetti più ambient: Kyiv Eternal è un’eccezione. 

Mentre stavo ascoltando il disco, mi sono venute in mente alcune parole che vorrei condividere con te, e magari commentarle. La prima è “memoria”.
Possiamo definire il disco come un capsula della memoria, ma non è solo quello. Si tratta di un modo per affrontare e relazionarsi con esperienze traumatiche, per guardare a un passato che non c’è più. Ogni passato è un futuro a cui nessuno ha più accesso. Non abbiamo più accesso a quel futuro, e con ‘noi’ intendo il popolo ucraino in generale. Credo che le canzoni non abbiano un mood così melanconico, ma anzi abbiano dei toni di luce. Questo perché in generale tendiamo a dimenticare le cose brutte e a ricordare quelle belle. 

Lo pensi davvero?
Penso di sì, al di là di esperienze davvero traumatiche, credo che ricordiamo maggiormente il bello e dimentichiamo il brutto, o almeno ricordiamo meglio le cose positive e dimentichiamo quelle negative. Penso sia il modo con cui il nostro cervello cerca di mantenere la sanità mentale.

Te lo chiedevo perché secondo me non dimentichiamo, ma cerchiamo di sopprimere per non doverci relazionare coni traumi.
Ovviamente rimangono lì, ma in generale rimango fedele al pensiero di prima. Kiev non è una città semplice in cui vivere, sono cresciuto lì e ci ho vissuto per 37 anni. È un posto che impari ad amare e odiare contemporaneamente. Moltissime esperienze importanti per me sono accadute lì: il primo amore, la prima relazione, la prima rottura. Questa città è diventata una parte inseparabile della mia identità, ma solo dopo che ho perso la connessione con essa a causa dell’invasione russa mi sono reso conto del peso che aveva. 

Un’altra parola a cui ho pensato è “privato”. Questo disco nasce dalla tua personale esperienza, camminando per la città, non è una registrazione impostata e ufficiale.
Assolutamente, la maggior parte delle tracce sono registrazioni private, a parte un paio di canzoni che sono state realizzate specificatamente per alcune installazioni di sound-art come “Rare Birds”. Volevo che rimanesse in questo modo, perché volente o nolente questo è un album politico ma il politico è presente attraverso una storia privata, la mia. Non è un narrativa imposta dall’alto, è personale, il politico ci entra ma non è guidato da esso. Le registrazioni e le tracce ambient arrivano dal mio archivio, è materiale che non era mai stato reso pubblico ed era rimasto nel mio hard drive, fino a che non ho realizzato che volevo assemblare il tutto in Kyiv Eternal

Hai anticipato la mia terza parola: “politico”. Ovviamente questo è un disco politico, ma realizzato in un modo per il quale diventa tale.
Esatto, questo è il nodo centrale dal quale non si può uscire. Ogni musica che si produce può essere utilizzata come uno strumento politico, quasi un’arma: che tu lo voglia o meno, ogni opera che crei può essere potenzialmente letta attraverso una lente politica, è quindi meglio accettare la cosa piuttosto che ignorarla, e capire come rendere ciò parte del lavoro senza esserne sovrastato.

Senti una forma di responsabilità?
Si, senza dubbio, ma non sono solo, credo che molti artisti ucraini abbiano preso coscienza del fatto che anche se non lo desiderano, la loro opera è comunque letta attraverso uno sguardo politicizzato e utilizzata come fosse un’arma culturale in un contesto di guerra. 

La cover del disco mi ha ricordato un’opera di Christo fatta in un contesto bellico. Avresti voglia di parlarmene?
Certo, questo album è iniziato nel momento in cui sono rientrato a Kiev: ero andato via dalla capitale perché era troppo pericoloso rimanere. Al mio ritorno feci questa esperienza molto strana: mi sembrava che la città fosse un essere vivente da proteggere, e sembra una cosa molto sentimentale da dire ma per me non lo è, anzi, fu traumatico. Mentre camminavo per la città mi resi conto che molti monumenti cittadini erano protetti da sacchi di sabbia. E volevo che la cover del disco rispecchiasse quel sentimento e il desiderio di proteggere la città. L’immagine dei monumenti racchiusi all’interno di una pila di sacchi di sabbia era, metaforicamente, perfetta. 

La copertina di “Kyiv Eternal”

Io la trovo molto evocativa, è astratta ma anche concreta.
Potrebbe essere una scultura di un artista contemporaneo. Non è facilmente leggibile se non conosci la storia, perché la forma dell’opera si perde, ma un cittadino di Kiev lo capirebbe subito. Per tutti gli altri è come se fosse un’opera astratta. 

Uscendo per un momento dal disco, ho visto che hai un percorso artistico molto variegato, qual è il filo rosso che collega lavorare per il MoMA al fare una colonna sonora per un videogioco e comporre Kyiv Eternal?
Non lo so il mio è un percorso strano, sono un autodidatta, non ho una formazione musicale ufficiale. Durante i miei anni di formazione ho sempre cercato di essere eclettico, e di fare di tutto. Ho lavorato per videogame, film e contesti più commerciali, questo aiuta a sviluppare un modus operandi più libero. In generale mi piace molto lavorare in questo modo, ho amici che non lo apprezzano, ma per me è interessante lavorare in contesti dove hai una serie di restrizioni. È stimolante avere dei paletti, e se pensiamo alla storia della musica, fino al Diciannovesimo secolo, le restrizioni ci sono sempre state e qualche volta direi che hanno funzionato molto bene. Quando lavori in un contesto commerciale il tuo modo di pensare alla musica cambia, impari cose nuove, e il tuo approccio si evolve. 

La mia ultima domanda ritorna al tema della memoria. Nei tuoi ricordi qual è il suono di Kiev?
Non è una domanda semplice, Kiev è una città molto complicata. In Italia per esempio hai questo senso della storia molto presente, puoi tracciarla nell’architettura e nel come è progettata la città, la senti e la vedi. Kiev è una città con diverse identità che a volte sono in conflitto tra di loro, le parti più antiche, quelle moderne e quelle più nuove – che sono brutti edifici ultra moderni – convergono e configgono, e così i suoni. Potrebbe sembrare strano ma per me i suoni più importanti sono quelli meno appariscenti, come quello di un registratore di cassa in un negozio di alimentari: io potrei riconoscere perfettamente anche nel cuore della notte o la mattina appena sveglio. Ti dico questo perché è molto personale, e non riguarda qualcosa di grande ma di privato.