Durante la notte sogna ancora in yiddish, la lingua che ha parlato prima di imparare l’inglese da solo, all’età di sei anni. Nei sogni a volte lo va a trovare Sigmund Freud: «Freud appare sempre nei miei sogni come Jahveh il Padre», come ha raccontato nel libro Rovinare le sacre verità. Poesia e fede dalla Bibbia a oggi (1992). Freud però non si manifesta soltanto nelle visioni oniriche, a lui Harold Bloom ha dedicato addirittura un capitolo del suo libro di maggior peso, Il canone occidentale. Gli altri capitoli celebrano venticinque maggiori scrittori di sempre, considerati inevitabilmente più maestosi dei loro critici e dei teorici letterari. Nonostante abbia fatto entrare Freud nel canone, Bloom non ritiene sia utile servirsi della psicanalisi per interpretare i testi letterari, e propone di sostituire alla lettura freudiana di Shakespeare una lettura shakespeariana di Freud. L’idea è che nessun campo del sapere può far luce su Shakespeare, che è al centro del canone letterario di ogni tempo. Per Bloom Shakespeare è un faro, è un evento sismico irripetibile, è una potenza abbagliante che squarcia l’umanità e le cui ombre benefiche arrivano a fecondare gli scrittori dei secoli successivi, fino al Novecento: «Chiunque tu sia e ovunque ti trovi, egli è sempre davanti a te, concettualmente e quanto a immaginario».
Di fatto ha trascorso la vita a leggere – legge in greco, ebraico moderno e antico, latino, yiddish, inglese, francese, spagnolo, tedesco, portoghese, italiano – e l’unico rimpianto che ha sono gli inutili litigi, che gli hanno sottratto tempo allo studio. All’inizio della carriera i suoi interessi erano rivolti a Keats, Wordsworth, Emerson, Coleridge, Blake. Interessi molto vicini a quelli di due critici della cosiddetta scuola di Yale: Geoffrey Hartman e J. Hillis Miller. Anche per questo motivo per un lungo periodo è stato confuso e associato ai teorici del decostruzionismo. Ma una volta confrontatosi con lo strutturalismo degli anni sessanta e con la decostruzione, e aver quindi voltato le spalle sia a Jacques Derrida che e al suo amico Paul de Man, si è trovato solo e da allora dice di non avere né una scuola, né colleghi. Il sentimento di solitudine deriverà anche dal fatto che gli attacchi arrivano non solo dai teorici degli studi postcoloniali, o dalle femministe, ma anche dagli spiriti conservatori e dalle autorità religiose. Per Bloom la letteratura non è una cassaforte di valori, non rende migliore nessuno, i veri grandi scrittori sono anzi quelli che hanno sovvertito tutti i valori della società. Leggere non rende cittadini morali, e così gli scrittori non devono rispondere a una vocazione politica: è celebre la sua idea secondo la quale pretendere responsabilità politica dallo scrittore è come esigerla da un giocatore di baseball.
Non ha mai imparato neanche a usare la macchina da scrivere, utilizza solo penna e carta
Le sue letture dei testi sacri si sono prestate ad altrettante polemiche. Per Bloom «l’adorazione occidentale di Dio – da parte di ebrei, cristiani e musulmani – è l’adorazione di un personaggio letterario». Walter Siti, a proposito della dimensione religiosa e del sacro in Bloom ha scritto un saggio dal titolo An American Gnosis. Appunti su critica e religione in margine all’opera di Harold Bloom. E proprio il primo saggio di Bloom che entrò nella classifica dei libri più venduti fu il volume Il libro di J nel quale sosteneva non solo che un autore della Bibbia ebraica esistesse ma che l’autore fosse una donna. Si ritrovò contro studenti, rabbini, giornalisti. Anche i rapporti con il cristianesimo non sono buoni, visto che considera cristianità e antisemitismo come sinonimi.
Spesso si è notata la scarsa presenza di scrittrici e poetesse negli studi di Bloom. Un amore speciale è rivolto solo a Emily Dickinson: «Eccezion fatta per Shakespeare, la Dickinson dà prova di maggiore originalità cognitiva di ogni altro poeta occidentale dopo Dante». Tra i poeti è seconda solo a Walt Whitman. Le scrittrici che preferisce sono Emily Brontë, Charlotte Brontë, Jane Austen e George Eliot: «Come notava la Woolf – scrive nel Canone occidentale – se mai c’è stata una sorella di Shakespeare, era la Austen che scrisse due secoli fa».
Nella conclusione del Canone occidentale Bloom suggeriva ad ogni lettore di possedere un elenco di libri da leggere su un’isola deserta per il giorno in cui ci si dovesse ritirare a leggere «fuggendo dai propri nemici», naufragando, o dopo aver terminato la propria guerra. Quali libri portare con sé su un’isola? A questa domanda, una volta Joyce rispose: «Esiterei tra Dante e Shakespeare, ma non a lungo. L’inglese è più ricco e voterei per lui». Bloom si rispose così: «Se potessi avere un solo libro, vorrei che fosse l’opera omnia di Shakespeare. Se potessi averne due, quello e la Bibbia. E se fossero tre? Qui le difficoltà cominciano».
Di notte dunque Harold Bloom dorme e sogna in yiddish, o sogna Freud, oppure resta insonne. Di giorno legge, insegna e scrive. Durante un’intervista alla Paris Review, gli fu chiesto se c’erano giorni in cui non lavorava e lui rispose: «Sì, ahimè, ahimè, ahimè. Ma penso sempre alla letteratura. Non so distinguere tra letteratura e vita».
In tutte le immagini, Bloom a New York nel 2003. Mark Mainz/Getty Images
L’articolo è tratto da “Ritratti”, lo speciale numero digitale di Studio. Si compra qui in pdf, si scarica dalla nostra applicazione, qui.
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