Attualità

Hak Nam

Storia di Kowloon Walled City. Una città-edificio nata spontaneamente che per trent'anni è stato il luogo più densamente popolato del pianeta.

di Cesare Alemanni

Il mattino del 16 maggio 1899 le truppe di Sir Henry Arthur Blake, Governatore Generale di Hong Kong per conto dell’Impero Britannico, attraversarono le mura del forte di Kowloon senza incontrare nessuna delle resistenze temute. Ad attenderli, in verità, trovarono meno di duecento abitanti disarmati e un Mandarino. I sospetti di Blake si rivelavano infondati: il Vicere di Guandong non utilizzava il vecchio avamposto come ventricolo per una controffensiva su Hong Kong, la Seconda Convenzione di Beijing dell’anno prima (quella che sanciva il “prestito” dei Nuovi Territori ai britannici fino al 1997) era quindi “salva” e da lì a pochi mesi, ammirando le pacifiche spoglie della roccaforte del ‘600, un turista occidentale annotava sul proprio diario: «un affascinante assaggio di vecchia Cina». Il numero dei residenti, perlopiù abusivi, intanto era salito a cinquecento.

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quarantasei anni più tardi, del forte non restava traccia. Durante l’occupazione di Hong Kong, i giapponesi avevano smembrato le ultima mura per farne materiale di costruzione destinato al vicino aeroporto di Kai Tak e una puntinatura di stamberghe era tutto quello che si erano lasciati alle spalle. Dopo un anno la puntinatura era ormai una “mano uniforme” di casupole pericolanti, ospizio per ogni genere di sfollati, sotto lo sguardo indifferente degli inglesi che avevano optato per il laissez faire mentre da ogni parte del Guandong una corrente di senzatetto si riversava senza soste sull’area del vecchio fortino. Costruivano da sè minuscole abitazioni informali lasciando meno di un metro per il passaggio tra una fila e l’altra e quando lo spazio disponibile in orizzontale si era esaurito avevano proseguito sfruttando quello verticale. Dieci, dodici, a volte quindici piani composti di singole unità abitative da venti metri quadrati di media, sorte spontaneamente senza alcuna pianificazione o supervisione architettonica, sopra, sotto e a fianco delle preesistenti fino a giungere a un edificio/città. Ben presto, quelle che all’inizio, pur se strettissime, erano vie alla luce del sole diventarono labirinti bui e umidi rintanati nel ventre di un formichiere, finché, negli anni ’80, su una toppa di terra della superficie di sei acri e mezzo (circa 200 x 100 metri) – meno di un decimo del Parco Sempione – vivevano pigiati quasi in 50mila con quattro metri quadrati pro capite di spazio: una concentrazione abitativa dodici volte superiore a quella di Manhattan. A pari densità, in un chilometro quadrato ci potrebbero abitare quasi un milione e mezzo di persone. L’area di Milano, per rendere l’idea, è di 180 km quadrati. Non è quindi esagerato supporre che Kowloon Walled City (nota ai cinesi anche come Hak Nam, città delle tenebre) sia stato il luogo più densamente popolato della storia.

«A Kowloon entra ed esce qualunque cosa» era la voce che circolava ad Hong Kong a quell’epoca, quando la città delle tenebre era un’enclave in mano alla Triade, la mafia cinese che possedeva alcuni bordelli e bische ma soprattutto la sfruttava come raffineria e supermercato dell’eroina. Non erano però solo i derivati dell’oppio ad alimentare l’economia del budello di Kowloon: si producevano anche prodotti alimentari destinati ai migliori ristoranti della città che li pagavano a metà del prezzo standard, componenti meccanici per aziende, pezzi di ricambio per auto, utensili da ferramenta. Per la maggior parte i cittadini di Kowloon erano invisibili, approdati lì per fuggire alla giustizia o semplicemente perché privi di alternative, e accettavano di lavorare sedici ore al giorno, sette giorni su sette, in stanze prive di areazione, costantemente umide, in compagnia di topi e scarafaggi senza vedere la luce del sole per settimane. Non avevano doveri di fronte all’amministrazione sino-anglosassone ma neppure diritti. Molti di loro cedevano all’eroina dopo breve e si stima che a un certo punto il tasso di tossicodipendenza a Kowloon si sia aggirato intorno al 30%. Eppure, come scrive il poeta Leung Ping Kwan: «Kowloon era un posto a prima vista spaventoso in cui però molte persone conducevano vite del tutto normali. Un posto proprio come qualunque altro a Hong Kong». In parte c’è del vero in questo. A quanto risulta infatti, a Kowloon non proliferavano solo prostituzione e criminalità ma un’intera e miracolosa organizzazione sociale dotata di quasi tutti i crismi della civiltà: dentisti, dottori, un asilo, minuscoli teatri, agenzie immobiliari, ristoranti e persino un centro di recupero per tossicodipendenti gestito da una volontaria inglese. La “città” era un organismo le cui cellule riconfiguravano le proprie funzioni secondo cicli di 12 ore: quello che di giorno era una lavanderia, di sera poteva trasformarsi in una bisca, per diventare un laboratorio artigianale il mattino seguente.  A fine anni ’80 un illustratore giapponese ha catturato meglio di chiunque altro la complessità di questa struttura dinamica, disegnando un’ampia sezione di Kowloon che si trova a questo link.

Negli anni la città è diventata un polo di fascinazione potentissimo per scrittori, registi, intellettuali e fotografi: in Idoru William Gibson ne trae un modello letterale per la “sua” città di Hak Nam, Hakim Bey l’ha spesso citata come un eccezionale caso di T.A.Z., Peter Lamborn Wilson ne ha parlato come la più straordinaria delle Pirate Utopias moderne mentre con City of Darknes: Life in Kowloon Walled City, i fotografi canadesi Ian Lambot e Greg Girard hanno realizzato un grandissimo lavoro di testimonianza della vita all’interno della “città senza legge”. Un’opera proseguita da un documentario realizzato da una troupe tedesca all’inizio degli anni ’90, solo pochi mesi prima che le autorità iniziassero un piano di sgombero e demolizione concluso nel 1994.

Oggi dove si trovava Hak Nam, c’è un parco. Si chiama Kowloon Walled City Park ed è meta di turisti e curiosi da tutto il mondo che però vi ritrovano ben poco del fascino oscuro della città delle tenebre che invece continua a vivere altrove. Nel dibattito architettonico per esempio, che al modello di sviluppo spontaneo della città/edificio dedica da anni riflessioni e da quella esperienza coglie spunti per discutere il tema delle infrastrutture leggere e del metabolismo delle architetture modulari ma anche trae ispirazione per disegnare alveari residenziali di lusso. Come ha scritto James Wegener, ironicamente «vent’anni dopo la sua fine, l’anarchia di Kowloon è giunta al suo capolinea. La Città delle tenebre si è trasformata in una vuota e costosa estetica condominiale».