Attualità

Guarigione (da tutto ciò di cui si può guarire durante una vita)

Intervista con Cristiano de Majo sul suo ultimo libro, Guarigione: un racconto di pura realtà sugli ultimi anni della vita dello scrittore, su malattie, borghesia, lavoro, morti, nascite. Vita, ferite e, appunto, guarigioni.

di Davide Coppo

Guarigione è il secondo romanzo di Cristiano de Majo. Cristiano de Majo è uno scrittore di 39 anni, napoletano, con una compagna e due figli gemelli. Da anni scrive per Studio, principalmente di libri e letteratura. Da mesi scrive spesso di nonfiction, cioè tratta l’argomento da critico ed esperto. Che la nonfiction sia una tendenza letteraria in ascesa è un fatto. Cristiano è un esperto in materia. Guarigione, il romanzo di Cristiano de Majo, è un romanzo di nonfiction. Che vuol dire? Che parla di realtà. Quale realtà? La vita di Cristiano. Anzi, gli ultimi anni della vita di Cristiano. Cioè quando nella sua vita sono entrati degli elementi che l’hanno, per così dire, sconvolta. Questi elementi sono una malattia, una coppia di gemelli (i suoi figli, M e T), e un’altra malattia, questa volta a uno dei due figli. Guarigione è la storia di tutto questo. Ho divorato il libro in pochi giorni, e ho chiesto a Cristiano di parlarne. È un libro importante e, nel panorama letterario italiano, quasi unico. Ho parlato con Cristiano in un pomeriggio soleggiato di novembre, su Google Chat, mentre guardavo Napoli – Roma, finita 2 a 0 per il Napoli.

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Davide Coppo: Mi sento un po’ Tao Lin a fare un’intervista su gchat. Ho anche pensato “uso le maiuscole oppure no? se non le uso sembra più autentico”.

Cristiano de Majo:  Ahah, sì, tutto minuscolo, è più realistico.

DC:  Sono contento che non hai pensato che fosse troppo ombelicale o onanista parlare su Studio di questo libro che mi hai dato di persona una settimana fa, a me che lavoro a Studio e con una dedica che parla di Studio.

CDM:  Rischioso forse, però forse era altrettanto onanista fare finta su Studio che non esistesse.

DC:  Comunque, pensavo di iniziare dalla forma: ho avuto un dubbio prima di iniziare questa intervista o conversazione, ed è un dubbio che ho tutt’ora: la quarta di copertina di Guarigione è perfetta perché non contiene nessuno spoiler: le sinossi dei libri sono sempre piene di spoiler, che evidentemente gli editor o chi fa le sinossi reputano qualcosa come vittime necessarie per invogliare all’acquisto. Quando apri guarigione invece non sai per nulla a cosa andrai incontro. Quanto possiamo spoilerare?

CDM:  Non lo so, vediamo, c’è già un po’ di spoiler in giro e spesso forse certe informazioni trasmettono l’idea di un libro diverso da quello che è, per questo libro il rischio  di essere tematizzato è molto concreto.

DC:  Possiamo cercare di mettere Guarigione su uno scaffale letterario? Non lo possiamo chiamare del tutto memoir perché è il racconto di una vita, un segmento di vita e non un singolo evento. Possiamo chiamarlo autobiografia incompleta?

CDM:  Sicuramente la mia ambizione è totalmente letteraria, ma non è facilissimo definirlo per me. È un lavoro che parte dall’esperienza, dalla cosiddetta realtà, per rappresentarla attraverso una costruzione formale, appunto letteraria, che è anche una sfida, un esperimento. Non mi viene da chiamarla autobiografia anche se in parte lo è.

DC:  Farò un piccolo spoiler però prima di questa considerazione, dovrò per forza dire che Guarigione è un titolo dato non a caso: ci sono delle malattie, dei traumi, e delle guarigioni. Quindi in un certo senso il finale è dichiarato all’inizio. Il finale, però, più che una guarigione clinica, è una specie di fine di percorso interiore, il completamento di una fase di trasformazione di un personaggio, cioè di Cristiano de Majo. Se ti dico che il finale mi ha fatto venire in mente lo «shantih shantih shantih» della Waste land che ti sembra?

CDM:  Bello, mi piace molto, è una fine spirituale chiaramente, non so se si possa definirla di “pace interiore”. Come dici tu, però è la fine di un percorso, non esattamente una guarigione, d’altra parte nel libro  interpreto malattia e guarigione come dei cicli che si alternano più che delle condizioni esistenziali. L’esergo di Sontag mi è parso perfetto in questo senso.

DC:  «Chiunque nasca mantiene la doppia cittadinanza nel regno del sano e nel regno del malato», bello.

CDM:  Sì, ma soprattutto m’interessava mettere in relazione il ciclo malattia/guarigione con il tempo. Ovviamente questo libro passa e passerà per essere un libro sulla malattia, in realtà internamente io lo definisco un libro sul tempo, nel senso di presente passato futuro.

La malattia è il più eclatante fenomeno della vita che sfugge al nostro controllo, quindi scriverne è sicuramente un tentativo di recuperare questo controllo.

DC:  Ne parlavo con un amico ieri sera e gli ho detto qualcosa tipo: parla di una vita, ci sono delle morti e delle malattie, ma è sostanzialmente un pezzo di vita che passa.

CDM:  Beh, grazie, vorrei che tutti lo descrivessero così.

DC:  Torno però alla malattia, al perché scrivere di malattia: c’è uno scritto breve di Bolaño che si chiama “Letteratura + malattia = malattia”, forse lo conosci, dice: «Scrivere sulla malattia, soprattutto se si è gravemente malati, può essere un supplizio. (…) ma può essere un atto liberatorio. Esercitare, per qualche minuto, la tirannia della malattia, come quelle vecchiette che si incontrano nelle sale d’attesa degli ambulatori e che si mettono a raccontare la parte clinica o medica o farmacologica della loro vita, invece di raccontare la parte politica della loro vita o la parte sessuale o la parte lavorativa, è una tentazione».

CDM:  Non lo conosco, mi piacerebbe leggerlo. In quello che scrivi qui trovo una cosa verissima, la malattia è il più eclatante fenomeno della vita che sfugge al nostro controllo, quindi scriverne è sicuramente un tentativo di recuperare questo controllo. Basta prendere libri come Tutti i bambini tranne uno o L’anno del pensiero magico per trovare verificata l’ipotesi di Bolaño.

DC:  Sta alla fine di El gaucho insufrible. Poi dice: «A volte mi viene da pensare che nelle sale d’attesa degli ambulatori risieda il paradiso di Ortega y Gasset». Si scrive tantissimo di malattia, soprattutto della propria malattia.

CDM:  È molto vero, anche se poi ovviamente c’è una differenza di scopi tra chi racconta semplicemente e chi invece tenta di dare allo stesso racconto una cornice formale, di ricerca.

DC:  (Questa è una cosa che non credo di pubblicare, ma pochi mesi fa mi sono fatto delle ecografie dopo molti dolori in punti diciamo sensibili, un amico  si era ammalato da poco, insomma prima delle ecografie mi sono detto “ok, potrei avere un tumore”. Scherzando, con un amico molto stretto a cui stavo confidando le mie paure, ho detto «se non altro potrò scriverci un libro»).

CDM:  (Ahahaha, io ce ne ho scritti quasi due se è per questo, ma direi di pubblicarla questa parentesi perché il discorso è interessante, in fondo il pensiero di uno scrittore ha sempre un risvolto veramente cinico. In certi momenti mi faccio paura da solo, però vedi, credo che questo cinismo vada valutato caso per caso. Solo l’esito finale di un testo letterario può dirci quanto sia in grado di combatterlo).

DC:  Più che cinismo io credo che uno scrittore ci veda una splendida opportunità per far esplodere il proprio narcisismo. Con, a seconda dei casi, un’aggiunta minima o massiccia di quell’autocommiserazione alla Memorie dal sottosuolo.

CDM:  Non sono d’accordo, non è narcisismo, almeno non lo è per me, è invece la possibilità del realismo che si dispiega davanti ai tuoi occhi. Mi succede una cosa e quindi ho tutte le carte in regola sul piano emotivo per riuscire a descriverla. E la descrivo per comunicarla ad altre persone alla fine dei conti. Non per specchiarmi.

DC:  Dici? Non voglio parlare di te, e quindi dire cosa pensi te, non mi permetterei mai. Ma dici che non si scrive un libro così per altre ragioni in fondo più ciniche, cioè perché “è la sola cosa che so fare” o “sono troppi anni che non scrivo” o “non ho ancora pubblicato un romanzo e sto invecchiando e non voglio essere un quarantenne esordiente” eccetera? Poi lo so che qui si finisce nel gigantesco buco nero del “perché scriviamo?”

CDM:  Non posso risponderti in generale, per quanto mi riguarda quando sono nati i miei figli avevo perso del tutto la voglia di scrivere. La prima cosa che ho scritto, ma senza neanche pensare a una pubblicazione, è stato quello che poi sarebbe diventato il primo capitolo di questo libro… che è stato scritto di getto, senza nessun ragionamento di nessun tipo, te lo giuro. Ho avuto bisogno di dare un ordine formale all’esperienza.

DC:  Capisco.

CDM:  E poi mi sono reso conto che era la storia che volevo raccontare.

DC:  Che succede quando metti delle vite vere dentro un libro che finisce nelle mani di (ti auguro) decine di migliaia di lettori? Cosa si prova? Cosa provano quelle persone? Avevi avvertito tutti? Giancarlo, Laura, tua madre, Francesco… Qualcuno ha avuto reazioni inaspettate?

CDM:  Problema enorme ovviamente. La mamma e il papà di Carlo chiaramente sì, gli ho fatto leggere le bozze prima di pubblicare e la loro reazione mi ha emozionato tantissimo. Mi aspettavo da Laura, la mia compagna, una reazione più aspra e invece mi ha molto sorpresa il modo per così dire laico con cui ha accettato di essere diventata un personaggio (certo è rimasta un po’ scioccata quando ha visto il suo nome in grassetto in una recensione uscita su IL). Altri presenti solo di sfuggita sono stati avvertiti, mia madre e mio padre no. altri ancora, quelli che compaiono con nomi puntati, compresi i miei figli, non sono stati avvertiti. E poi ci sono almeno un paio di personaggi reali a cui ho cambiato nome perché poteva esserci qualche casino. Casino legale, intendo.

DC:  Una cosa che mi ha fatto più impressione di Guarigione: mi ha stampato in testa la domanda, o l’angoscia, anche se non sono padre ma sono sì figlio, un’angoscia o dispiacere che definirei così: non è giusto che i miei figli non conosceranno mai il me prima che arrivassero loro. E non è giusto che io ami dei genitori senza averli mai conosciuti a vent’anni, o a trent’anni, quando erano come me, ragazzi che si innamoravano e andavano al cinema e pensavano ad avere figli ma chissà con chi chissà quando.

CDM:  Esatto! È un pensiero che mi fa impazzire… sapere che i miei figli non ricorderanno nulla dei loro primi tre anni, che invece sono stati per me e grazie a loro un momento così potente sul piano emotivo… oppure non potermi rendere conto del se i miei genitori mi hanno veramente amato quando ero in fasce. È forse una delle domande più importanti che attraversano il libro.

DC:  Ma anche non potermi rendere conto del se i miei si sono amati come si amano i ventenni, anziché i sessantenni. Amiamo incondizionatamente delle persone che non conosciamo davvero.

CDM:  Questo è stranissimo anche da genitori, amare i propri figli o meglio sentirsi amati da loro pensando a quanti lati terribili del nostro carattere o quanti aspetti segreti della nostra vita non conosceranno mai.

È un pensiero che mi fa impazzire… sapere che i miei figli non ricorderanno nulla dei loro primi tre anni, che invece sono stati per me e grazie a loro un momento così potente sul piano emotivo.

DC:  Hai scritto anche un libro sulla paternità, e sull’essere figli insieme. A un certo punto scrivi una cosa molto sensibile: «Mi terrorizza l’idea che un giorno i miei figli possano dichiararmi la stessa guerra che io ho dichiarato ai miei». È vero, è terrorizzante. Ma in fondo tu ami i tuoi? Eppure hai fatto loro una guerra spietata, poi sei cresciuto e tra i contrasti e le differenze è rimasto l’affetto. Quindi in fondo da genitore non lo sai che quella guerra, nove volte su dieci, è una guerra necessaria e che non farà troppe vittime?

CDM:  Vorrei rispondere a questa domanda tra dieci o vent’anni, ed è forse la domanda più personale che mi hai fatto, ti posso dire che non parlo più con mio padre da qualche mese.

DC:  Ok. non l’ho fatta per avere rivelazioni di qualche tipo, ovviamente quando uno pensa questo pensa un po’ a se stesso, un po’ alla statistica che dice che spesso tutto l’odio anti-genitoriale provato nell’adolescenza, poi scema nell’età adulta. Un po’ come il dolore dell’incipit di Seminario sulla gioventù. Però insomma, capita anche che no.

CDM:  (Mi sa che il Napoli ha vinto, campionato mediocrissimo).

DC:  No ha segnato Callejon il 2-0. È un giocatore fantastico e il Napoli ha giocato davvero da dio. Mancano 5 minuti. Comunque: un passaggio che mi è piaciuto molto è quello sui soldi e sulla borghesia e sulla letteratura. A agina 119, quello che dice: «Avrei potuto mettere la mia intelligenza al servizio dell’arricchimento personale oppure conta solo il nostro daimon, ragione per cui il mondo si divide in persone capaci di fare soldi e persone del tutto incapaci a farne per motivi squisitamente innati? Un attico con panorama, una seconda casa in costiera, con gozzo ormeggiato a marina della libra, dove passare un paio di mesi all’anno, spazi riempiti di oggetti di design e mobili antichi, pieni di libri e di dischi, il vino buono, la carne di prima qualità, il pesce pregiato. C’è qualcuno che pensa seriamente che tutto questo non possa rendere la nostra vita migliore?». Non so bene se c’è una domanda in fondo a tutto ciò. Forse un po’ di angoscia, anche qui. Davvero si deve sempre scegliere tra scrittura, e quindi soddisfazione personale e coscienza di star facendo qualcosa di alto, con molte virgolette, e il denaro?

CDM:  Forse non dovrebbe essere così, ma per me andando a ritroso nel tempo mi sembra una scelta, non ho mai pensato quando avevo venti o venticinque anni che i soldi fossero importanti e quindi ho sempre scelto di fare quello che veramente mi piaceva fare. C’è forse anche una distanza culturale. Tu sei sempre vissuto a Milano dove guadagnare con il lavoro culturale forse non è un’ambizione così surreale come a Napoli.

DC:  Guarda, anziché lavorare in una rivista culturale potrei fare copywriting e fare più o meno il quadruplo dei soldi che faccio ora. E mi comprerei più libri, gli hardcover che costano un sacco, avrei più tempo per leggere, più riviste di design e più mobili e più piante tropicali, quindi sarei soddisfatto della funzione dei soldi, ma non sarei probabilmente soddisfatto di come li ho fatti. È un pensiero ottocentesco?

CDM:  Ho sempre pensato anch’io così, ma tu hai meno di trent’anni. A trentanove con due figli il pensiero “ah, se avessi fatto il concorso in magistratura”, oppure “ah, se avessi fatto il master in giornalismo alla Luiss” è sempre dietro l’angolo.

DC:  Uno strano incrocio tra realtà e libro (anche se è un libro che parla di realtà): a un certo punto scrivi di Carlo, questo tuo amico morto molto giovane durante un viaggio in Sud Africa, su una strada che collega la Repubblica Sudafricana con il Botswana. Ho posato il libro e ho googlato “carlo italiano morto sudafrica”, impostando la ricerca nel solo 1998. Poi ho ripreso il libro, e ho letto che tu, lo scrittore che mi stavi raccontando della morte di Carlo, hai fatto la stessa cosa.

CDM:  Ah sì? Mi viene da interpretarlo come un segno positivo, come se lettore e autore fossero sulla stessa lunghezza d’onda.

DC:  Cosa si prova a scrivere di un proprio amico morto?

CDM:  È stato difficile, anche perché in realtà più che fedele a lui, sentivo molto il compito di rispettare una specie di consegna morale che avevo ricevuto dai suoi genitori, anche se poi in realtà m’interessava raccontare loro, la loro vita dopo Carlo, più che Carlo stesso. Alcuni lettori mi hanno detto che è una delle parti del libro che hanno preferito, altri l’hanno invece trovata la più controllata. Tu che ne pensi di quella parte?

DC:  Fai conto che il libro l’ho finito ieri, quindi ti rispondo a caldo: mi è sembrata molto un libro dentro il libro. Da lì si spezza molto la prima parte, che è concentrata su di te, su Laura e sui vostri figli, sulla malattia e sui tentativi di guarigione, o l’attesa della guarigione, da una seconda parte con più personaggi, quasi più romanzesca.

CDM:  Si spezza è vero, ho cercato in realtà di riprodurre in vitro l’evoluzione di una fase, che è quella della nascita di un figlio, in cui lo sguardo è tutto rivolto all’interno (anche semplicemente all’interno del tuo appartamento). Superata quella fase s’incomincia a guardare fuori, si ricomincia a confrontarsi con il resto del mondo.

DC:  Sì, esatto, è un effetto molto riuscito. Ancora una cosa o due: quando si scrive di nonfiction il materiale è già lì, è la realtà, in questo caso è la tua vita. Quanto è difficile poi elaborarla in un testo che non segua per forza di cose la linea del tempo? È forse più difficile che con la fiction, perché non puoi creare degli espedienti, con la realtà, per far incastrare le cose?

CDM:  È un discorso che m’interessa molto come scrittore e come teorico, ti potrei riempire di citazioni, ma ti risparmio. Già l’organizzazione della memoria per alcuni neurologi è un processo che si avvale della tecnica narrativa e quindi comporta un qualche grado di finzione. È un lavoro che mi piace molto invece giocare con la realtà e il tempo come se fossero due ingredienti da mescolare, è come fare le costruzioni, hai del materiale e lo devi assemblare nel modo più logico ma anche più bello. Quindi in realtà degli espedienti ci sono. Per esempio il terzo capitolo – Incredulità – è scritto tutto con una forma diaristica, come se fossero tutti flash senza un ordine cronologico chiaro o esplicito, perché è esattamente il modo in cui ho vissuto quel periodo della mia vita, quando i bambini erano molto piccoli, la percezione che avevo del tempo era completamente cambiata, le giornate erano sempre uguali ma anche con degli incredibili picchi emotivi e quindi tentando di rimetterli insieme mi ricordavo solo i picchi senza nemmeno riuscire a dare a questi picchi un ordine preciso.

È un lavoro che mi piace molto invece giocare con la realtà e il tempo come se fossero due ingredienti da mescolare.

DC:  Un’ultima cosa: è vero che c’è scritto Cristiano de Majo in copertina, ma quando, a metà libro, scrivi «mi chiamo Cristiano de Majo, ho 39 anni» è come se togliessi al lettore quello 0,00001 per cento di dubbio. È come se stessi dicendo ok, lo ufficializzo, state leggendo la mia vita. È voluto?

CDM:  Beh sì, anche perché avviene all’ultimo capitolo e perché quel capitolo si apre con l’impegnativa domanda “Chi sono?” e tutto il capitolo è concentrato sulla questione dell’identità.

DC:  Chissà che diranno i tuoi figli.

CDM:  Esatto. Me lo chiedo tantissimo. Credo che mi odieranno pure se  io l’ho scritto anche per testimoniare l’amore che ho provato per loro.

DC:  Chissà cosa penseranno di quei personaggi chiamati M e T, che sono loro ma loro non si riconosceranno perché dei loro due anni non rimarrà traccia nella loro memoria.

CDM:  Sì, è un esperimento di laboratorio. All’avanguardia. Tipo un giornalista tra trent’anni li cercherà e… chissà cosa scoprirà.

DC:  Esatto, googlerà “figli cristiano de majo”. Magari tra trent’anni scrivo io un libro di nonfiction sulla ricerca dei tuoi figli.

CDM: Vertigini.

DC:  È strano leggere un libro come Guarigione perché non c’è una fine vera e propria, anche.

CDM:  Questa è la grande libertà che concede la forma non romanzesca. Però lo hai detto tu prima che in fondo è la chiusura di una fase, un passaggio.

DC: Sì, ma sei tu che l’hai chiusa. La trama non si chiude davvero. È la vita.

CDM:  Sì infatti ti stavo dicendo che è anche la ragione per cui è stato difficilissimo a un certo punto considerare il libro chiuso. Non è in fondo molto realistico aspettare il futuro?

DC: È l’unica cosa che possiamo fare, immagino.

 

Nell’immagine, un dettaglio della copertina.

 

Guarigione, di Cristiano de Majo, Ponte alle Grazie, 2014, 252 pp.