Attualità

Glow Boys

di Matteo Lenardon

In Italia le morti sul lavoro sono un problema importante. Hanno anche un nome tutto loro, morti bianche, come tutte le questioni che possono essere affrontate con una dichiarazione di quindici secondi da un portavoce al telegiornale delle venti. Carriere politiche sono nate e morte sulla questione della sicurezza sul lavoro e, solo pochi giorni fa, una storica sentenza ha trovato colpevoli di omicidio volontario i dirigenti della Thyssenkrupp, l’azienda tedesca coinvolta nella morte dei sette operai torinesi. L’accusa? Il totale disinteresse per la vita dei propri impiegati. “Farà giurisprudenza,” ha commentato il PM che li ha processati.

Ma cosa fare quando il lavoro stesso comporta implicitamente la perdita della propria vita? Non è impossibile, non si tratta di una situazione eradicata dal progresso dei diritti civili dei lavoratori. Succede in tutti i paesi con centrali nucleari e, specialmente dopo il disastro causato dallo tsunami, accade oggi a Fukushima, in Giappone.

Le persone coinvolte hanno tanti nomi indefiniti, perché non esistono, e non si possono regolarizzare. C’è chi li chiama jumpers, perché devono “saltare” dentro una zona pericolosa, ripulire, e tornare in sicurezza all’esterno dopo pochi minuti. Altri usano glow-boys, un termine nato dopo l’incidente del 1979 al reattore americano di Three Mile Island. A causa di una mancanza di ingegneri a disposizione per l’intervento di contenimento delle radiazioni, molti lavoratori — in molti casi semplici operai, inservienti e addirittura segretarie — si inventavano identità fittizie per poter prendere parte a nuovi turni e sfuggire così ai controlli. Più radiazioni assorbivano e più venivano pagati. Sette dollari all’ora e trenta al giorno, questo costava farsi cinquanta lastre al minuto. Ora i rischi sono maggiori e la paga sembra non bastare. Per Fukushima, la TEPCO, la compagnia responsabile della centrale, offre cinquemila dollari al giorno a chiunque decida di continuare a lavorare. Ma i loro stessi impiegati — ingegneri nucleari, fisici e altri importanti scienziati si rifiutano.  Allora si prova coi contractors, stesso peloso eufemismo impiegato per gli ex-militari senza nome che si occupano di mettere in sicurezza personalità e pozzi in Afghanistan e Iraq, ma niente M-16 questa volta. “Mi hanno offerto 200.000 yen per un intervento,” ha rivelato uno di questi. “Normalmente considererei questa offerta un sogno, ma mia moglie è scoppiata in lacrime e mi ha fermato.”

Il lavoro è semplice, chiunque può farlo. E chiunque lo fa. Indossa una tuta gialla, gira quella valvola, spingi il bottone. Non serve un diploma o un dottorato. Nessuna esperienza richiesta. Anzi, in alcuni casi è controproducente. Ci sono situazioni in cui l’esposizione alle radiazioni è talmente elevata che si utilizzano glow-boys vergini, che parteciperanno solo a quel intervento, senza poter più lavorare per il resto della loro vita.

In alcuni casi si è fortunati, rischiano solo dei robot comandati a chilometri di distanza, ma il disastro procurato dal terremoto e lo tsunami impedisce loro di entrare in azione. Serve la carne.

Ryuta Fujita, un impiegato di ventisette anni della TEPCO ha dichiarato che gli hanno raddoppiato la paga per entrare nel secondo reattore di Fukushima. E poi l’hanno quadruplicata. Ma non ne vale la pena, dice. “Ho paura delle radiazioni, non voglio mai più lavorare in una centrale nucleare.” Tra i suoi colleghi si è sparsa la voce che qualcuno sopra i cinquanta ha accettato. Quando i giornalisti chiedono a chi è rimasto la quantità di radiazioni a cui vengono esposti non rispondono. “Informazioni private” è l’unico commento. Ma un venerdì diciotto della TEPCO sono stati contaminati da cento millisievert. Per le agenzie di sicurezza il limite di millisievert è di cinquanta per cinque anni.

Per i glow-boys questo non è un problema. L’età non è mai importata, così come le unità di misura che la gente comprende solo con analogie semplicistiche. La richiesta è enorme, le proposte continuano ad arrivare su nukeworker.com. Ci sono anche delle aziende specializzate, ora. La francese Areva SA ha mandato uomini, così come l’americana Westinghouse. Alcuni esperti hanno parlato di oltre 30 anni per far tornare Fukushima alla normalità. C’è lavoro per tutti.