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L’arte o la vita?

Le attiviste che hanno lanciato la zuppa di pomodoro sui Girasoli di Van Gogh hanno compiuto un gesto narrativamente perfetto ma che lascia un dubbio: si può discutere della crisi climatica compiendo azioni così radicali?

di Ferdinando Cotugno

Le attiviste di Just Stop Oil che hanno tirato la zuppa di pomodoro contro I Girasoli di Van Gogh alla National Gallery di Londra hanno sbagliato la domanda che ci hanno posto dopo essersi incollate al muro, cioè la confezione retorica di quell’azione. «Cosa vale di più, l’arte o la vita?». In pratica, hanno tirato Van Gogh dentro il conflitto e hanno suggerito una scelta che è l’opposto del senso delle lotte di Just Stop Oil o di qualsiasi movimento per il clima, cioè proteggere il futuro anche per conservare il passato, la continuità della vita umana sulla Terra, incluso tutto, anche l’eredità artistica di Van Gogh. Le due attiviste hanno ragione: a causa delle politiche energetiche globali oggi non sappiamo nemmeno se siamo in grado di riscaldare la zuppa di pomodoro. Solo che I Girasoli e il barattolo Heinz corrono in modi diversi gli stessi pericoli. Sono dallo stesso lato del conflitto. Vincent Van Gogh è – come loro e come tutti noi – un ostaggio della crisi e un compagno di sventura durante questa emergenza.

Su un’azione come quella di Just Stop Oil ci si possono chiedere tre cose. È stata fatta bene? È giusta? Serve a qualcosa? È difficile staccare gli occhi da quel video: la costruzione è cinematografica, esteticamente perfetta, è colta, piena di riferimenti, con una lunga genealogia: nello stesso museo, nel 1914 la suffragetta canadese Mary Richardson sfregiò la Venere allo specchio di Velázquez con un coltello da macellaio, dopo aver distrutto la teca, per protestare contro il trattamento riservato in carcere a Emmeline Pankhurst, leader del movimento per il diritto di voto. Oltre cento anni dopo, il gesto di Just Stop Oil non ha avuto nessuna conseguenza per l’opera, al sicuro dietro il vetro protettivo: il principale pericolo per l’integrità artistica di Van Gogh continuano a essere le mostre interattive in 3D. La conversazione furibonda dentro cui siamo tutti dentro da giorni deriva innanzitutto da questa efficacia: sono state brave, e noi non possiamo smettere di guardare quelle immagini senza sentirci coinvolti personalmente. È quello che fanno le grandi narrazioni, e ogni protesta è innanzitutto questo: una narrazione.

Però non siamo in un film di Cuarón o alla Biennale, quella non era una performance artistica, ma la realtà materiale di un conflitto. L’estetica è uno strumento e Just Stop Oil ci pone due domande molto più importanti, una etica e una politica. Innanzitutto: è giusto manifestare in questo modo? Le due attiviste appartengono allo stesso movimento che tre anni fa era indicato come il meglio delle generazioni a cui avremmo affidato il futuro collettivo, i più bravi, i più preparati, le nostre guide morali. Da allora sono stati blanditi e ignorati, illusi e sprecati. La verità è che non ci rendiamo conto di quanto essere dei ventenni informati in una democrazia contemporanea durante un collasso ecologico sia un dolore, una specie di tortura a intensità costante. Quando ci chiediamo se sia giusta la ribellione al museo dobbiamo partire da questo. Il nuovo governo del Regno Unito ha eliminato il bando contro il fracking, la fratturazione delle rocce per estrarre idrocarburi, e ha un segretario dell’energia, Jacob-Rees Mogg, al limite del negazionismo, uno per cui la transizione ecologica equivale a tornare all’età della pietra. A suo confronto il ministro italiano uscente Cingolani è Amitav Ghosh. L’attacco a Van Gogh è una teatralizzazione di quella disperazione.

La terza domanda però è la più importante: è utile fare azioni eclatanti di questo tipo? Che effetti hanno sulla società? Cosa vedono le persone, e soprattutto cosa vedono nella competizione tra i frammenti di storie che ogni giorno devono digerire: un direttore d’orchestra ucciso in Ucraina perché si ribellava ai russi, un carcere incendiato in Iran, lo sport, il gossip, la crisi energetica. L’attivismo è fare il meglio che si può per comunicare temi complessi nella limitata finestra di attenzione a propria disposizione: ogni azione è come l’elevator pitch con cui i fondatori di startup devono convincere gli investitori a dargli i soldi nel corso di un viaggio in ascensore. Hai un minuto di ascolto, te lo sei procurato, bravo. Ora come decidi di spendere quel minuto? Nella versione semplificata di quell’azione – l’unica che siamo in grado di consumare – l’osservatore si identifica in Van Gogh, non con le attiviste. Van Gogh siamo noi, quello che arriva è che ci sentiamo la zuppa sui nostri vestiti migliori. Con quell’atto ci hanno trasmesso una promessa di distruzione di tutto quello che è prezioso e condiviso. È per questo che l’azione contro I Girasoli è politicamente sbagliata: non solo è inutile, ma racconta una storia rovesciata. L’attivismo per il clima è protezione del patrimonio condiviso, non l’assedio contro di esso. «Just Stop Oil», cioè «fermate il petrolio», è una proposta sobria e ragionevole, supportata universalmente dalla scienza come condizione fondamentale per un futuro sostenibile. Associarla a un gesto nichilista come rovinare simbolicamente un’opera d’arte è non aver capito la propria funzione nella società.

Le democrazie avranno governi ecologisti quando la richiesta di quel tipo di interventi sarà impossibile da ignorare, e diventerà impossibile da ignorare quando sarà ampia e trasversale alle fratture geografiche, ideologiche, identitarie, anagrafiche. Quando sarà la storia di tutti. La disperazione dell’attacco a I Girasoli è inaccessibile, è impossibile da rendere collettiva, non apre ad alleanze, non allarga il fronte, non costruisce consenso ed è inutilizzabile in democrazia. È un buono spunto di conversazione, ma quella conversazione sarà su come sia giusto o non giusto protestare, non su quanto sia grave l’emergenza climatica o su cosa si possa fare per risolverla. Ed è autoreferenziale: la principale idea promossa da quei due minuti di video che abbiamo visto tutti è il brand Just Stop Oil, serve più per la competizione interna tra le organizzazioni per che per quella generale tra le urgenze.

Infine c’è il disegno più ampio: dopo cinque anni il voto e la piazza, agli occhi dei movimenti per il clima, sembrano due vicoli ciechi. Le organizzazioni si stanno radicalizzando nel linguaggio, negli obiettivi e nelle forme di protesta. Lo fanno, però, senza abdicare alla promessa di non violenza assoluta, che è alla base dell’ambientalismo contemporaneo ed è come hanno accumulato il loro capitale morale. Questo lascia un corridoio stretto di tipologie di azioni che non siano viste né come sterili né come violente: i blocchi sul Grande raccordo anulare, gli scioperi della fame, gli eventi sportivi interrotti o le aggressioni simboliche dentro i musei. Ad aprile Just Stop Oil, che nasce come una costola insoddisfatta di Extinction Rebellion, si era presentata sulla scena con la più ambiziosa delle sue azioni: fermare la distribuzione di combustibili fossili nel Regno Unito attraverso il blocco dei terminal. Era l’annuncio del salto di qualità: il passaggio dalla disobbedienza alla resistenza. Riuscirono a bloccare stazioni di servizio in tutto il Paese, a fermare un quinto della benzina per una settimana, al costo di migliaia di arresti. Dal loro punto di vista fu un successo, quella settimana è il mito delle origini di Just Stop Oil. Ma dal punto di vista del pianeta, la resistenza contro i terminal petroliferi ha prodotto effetti irrilevanti. Nel frattempo il confine tra violenza e non violenza diventa sempre più sottile e meno praticabile. La politica è costruzione e raggiungimento di obiettivi: l’attacco a I Girasoli è stato un’eccellente promozione di una storia, ma il punto su cui evidentemente non hanno riflettuto abbastanza era: quale storia? E rivolta a chi?