Attualità | Dal numero
Extinction Rebellion salverà il pianeta?
Cosa significa, oggi, combattere il cambiamento climatico mettendo assieme azioni disruptive e filosofia non-violenta: conversazione con Gully Bujak, una delle attiviste più in vista del gruppo di ambientalismo radicale.
Immagini prodotte da un'intelligenza artificiale su input testuale realizzate da Gola Studio
A maggio del 2022 un’inchiesta del Guardian ha parlato per la prima volta delle cosiddette «carbon bombs»: una serie di progetti da svariati miliardi di dollari già in corso di preparazione da parte delle più grandi corporation di petrolio e gas che – in teoria – non potrebbero mai passare, se i governi dovessero rispettare gli impegni presi durante la Conferenza di Parigi. Sembra un controsenso, quindi: perché queste multinazionali stanno preparando investimenti giganteschi in energie non rinnovabili ed estremamente inquinanti, che renderebbero utopico il raggiungimento del limite di 1,5 gradi auspicato per evitare un’apocalisse, e che per questo non potrebbero mai essere approvati da nessuno Stato? Semplice: perché scommettono che questi Stati non vorranno impedirglieli. Il pianeta è sull’orlo del baratro ma la conversazione globale, distratta dal febbraio 2022 anche dal ritorno della guerra in Europa, parla costantemente di tutt’altro, come se si potesse rimandare all’infinito la consapevolezza della nostra fine, sperando che accada una magia. Extinction Rebellion è il movimento globale nato per ricordarcelo ogni giorno, rompendo le palle a tutti il più possibile, bloccando città, mettendo pressione sui governi, causando costantemente quella che in inglese si chiama disruption e che in italiano non ha una traduzione all’altezza. Fondato a fine 2018 da Roger Hallam, Gail Bradbrook, Simon Bramwell e altri attivisti, è un gruppo che si richiama alla disobbedienza civile e alla non-violenza. Il nome non parla di futuro, non contiene la parola “verde”, non lascia trapelare nessun tipo di ottimismo: dobbiamo ribellarci per evitare l’estinzione, grida. È un movimento senza testa né gerarchia. Di come funziona e di come cambierà le nostre vite ho parlato un pomeriggio con Gully Bujak, una delle attiviste più in vista dalle prime ribellioni di XR, a partire dalla primavera del 2019.
ⓢ Qual è la differenza principale tra Extinction Rebellion e gli altri gruppi che si concentrano sul cambiamento climatico?
Extinction Rebellion è sicuramente il più grande gruppo di disobbedienza civile dai tempi delle Suffragette, almeno nel Regno Unito. Nel mondo ci sono comunità indigene che sono riuscite a resistere per anni in prima linea, e ci sono stati altri gruppi ambientalisti che hanno usato la tattica della disobbedienza civile, come Earth First. Ma non sono mai diventati, penso, quello che noi siamo ora: riuscendo a rendere la disobbedienza civile qualcosa di più appetibile e accettabile in generale. Non firmiamo petizioni, non scriviamo lettere ai parlamentari: noi siamo disruptive, violiamo la legge come parte della nostra resistenza. Questa è la differenza principale: la voglia di fare un passo in più, perché possiamo benissimo vedere che nient’altro ha funzionato.
ⓢ E come ti spieghi la vostra crescita così rapida? La filosofia non-violenta ha avuto un ruolo importante?
Penso ci siano stati molti fattori connessi. La nostra prima grande rebellion qui nel Regno Unito l’abbiamo fatta nell’aprile 2019, durante un’ondata di caldo veramente intensa, ed è arrivata soltanto poche settimane dopo quel report Ipcc che fu scioccante: quindi un bel po’ di persone aveva letto quel report, e quello fu uno spartiacque. È anche una questione di timing. Le persone erano finalmente pronte, e noi gli abbiamo offerto lo spazio giusto.
ⓢ Come funziona un movimento non gerarchico, nella pratica?
Abbiamo quelli che chiamiamo “cerchi”: immagina diversi cerchi, tutti interagiscono tra loro. E ognuno ha un mandato per delle determinate decisioni, per esempio a Media & Messaging si occupano della stampa e dei social media, quindi sono liberi di prendere certe decisioni per conto del movimento. E poi prenderanno decisioni che impattano su altri cerchi, e allora comunicheranno con quelli. Quindi ci sono una serie di cerchi, e ognuno si occupa di una cosa, ma si parlano tra di loro per creare una base di consenso per le decisioni.
ⓢ Sono soprattutto i giovani quelli che riescono a percepire l’urgenza di unirsi a questa ribellione, o c’è un’anagrafica che comprende anche generazioni successive?
È difficile da dire. Quando facciamo manifestazioni nelle strade si vedono sempre moltissimi giovani, ma nei ruoli di volontariato ci sono persone più anziane, o perché sono già in pensione o perché è più facile per loro fare volontariato. Sicuramente abbiamo bisogno di più giovani: non ce ne sono abbastanza e non so perché sia così. C’è un gruppo appena nato, si chiama Just Stop Oil. Loro fanno cose un po› più hardcore tipo arrampicarsi sulle petroliere e starsene lì per ore… Direi quindi che molti giovani sono al corrente del problema, e una piccola porzione di loro sta facendo azioni abbastanza estreme, tipo Just Stop Oil. In Extinction Rebellion dobbiamo migliorare, a livello di giovani.
ⓢ Come è cambiata la lotta, da quando hai iniziato?
È stato difficile. È stato difficile coordinare un movimento che è cresciuto così in fretta. Perché devi costruire strutture, processi, sistemi di supporto, per far sì che le persone possano lavorare insieme con quella scala. E questo richiede molto tempo. Ma penso che una delle cose più difficili è che abbiamo iniziato con una manifestazione così grande e così partecipata e abbiamo pensato: come possiamo perdere? Abbiamo sì ottenuto una piccola vittoria, quando il Parlamento ha dichiarato l’emergenza climatica, solo due settimane dopo la nostra protesta. Ma erano solo chiacchiere, e da allora abbiamo dovuto adattarci alle nuove tattiche di polizia, abbiamo dovuto adattarci alla stampa. È veramente difficile. Abbiamo sofferto e abbiamo imparato molto. Poi il Covid ci ha decimato e solo adesso ci stiamo riprendendo.
ⓢ Una delle cose che mi interessano di più è il ruolo della rabbia in questo movimento. A partire dal nome, rebellion.
Come riuscite a bilanciare la filosofia non-violenta con la rabbia che naturalmente provate contro il governo, contro
le corporation, contro certi media?
Rabbia e amore e gioia hanno tutte un ruolo importante in quello che facciamo. È assolutamente giusto e necessario che ci diamo la possibilità di essere arrabbiati: siamo stati traditi nel peggior modo possibile dalle persone che ci dovevano rappresentare, che si dovevano prendere cura di noi. E le cose continuano a peggiorare. Le nostre email terminano sempre con «With love and rage». Quindi c’è sempre questo equilibrio, e noi siamo molto attenti nel tenerle sempre insieme. Se una supera troppo l’altra non va bene. Ma la rabbia non è l’opposto di non-violenza: la rabbia può essere pacifica. E la non-violenza può essere piena di rabbia. Non è passività, è una scelta attiva, richiede sacrificio, richiede forza. Non è una cosa da deboli e non è una cosa divertente. Per molte persone la non-violenza è una scelta etica, per XR è una decisione strategica.
ⓢ È difficile convincere le persone che è una strategia fondamentale?
Sempre di più, sì. Perché non stiamo vincendo: stiamo perdendo. Ed è sempre più chiaro a tutti quello che succederà… Non potremo essere non-violenti per sempre, se devo essere realista. E dobbiamo anche riconoscere che la non-violenza per alcuni non è un’opzione: le persone hanno il diritto di difendersi. Al momento noi, nel Regno Unito, non dobbiamo difendere la nostra esistenza. Ma dobbiamo esserne consapevoli: non è l’unico modo che abbiamo. Ma in un altro senso, Extinction Rebellion sarà non-violenta per sempre, oppure non sarà più Extinction Rebellion.
ⓢ Cosa pensi della necessità di un’azione individuale di ogni cittadino, rapportata all’assenza totale di un’azione concreta da parte delle aziende e dei governi che sono i maggiori responsabili della catastrofe in cui ci troviamo?
La principale ragione per continuare a fare le tue piccole cose, riciclare e così via, è mantenerti in un certo senso sano, e avere rispetto per te stesso e per questo pianeta. Ma è anche veramente uno strumento utilizzato dalle corporation e dai governi per dividere la colpa tra noi e loro. Quindi direi che non dovremmo parlarne molto. Se invece cambiamo il focus, dal riciclo all’azione per esempio, alla disobbedienza civile, allora quella diventa una cosa potente. Anche come singoli individui, se ci uniamo nel compiere certi gesti, abbiamo un potere. Quello di cui dovremmo parlare è come possiamo mettere pressione ai governi del mondo per fare ciò che è necessario. E possiamo.
ⓢ C’è una certa importanza o strategia nell’essere arrestati?
È un’altra domanda complessa. In un certo senso direi che chiunque ha il privilegio di poter «sopportare» un arresto debba essere pronto, addirittura determinato, a essere arrestato. Perché questo movimento richiede un certo grado di sacrificio, e abbiamo il dovere di usare il nostro privilegio. Se invece sia strategico o no, è un’altra domanda. Noi crediamo nel causare rotture, spaccature, perché vogliamo essere impossibili da ignorare. Dobbiamo disturbare al punto che il governo sarà costretto a rispondere, e confrontarsi con le nostre richieste. E se disturbi fino a questo punto, probabilmente ti toccherà anche essere arrestato. Il disturbo è l’obiettivo, e gli arresti sono parte di questo.
ⓢ A parte le Suffragette, culturalmente parlando, da dove vengono le ispirazioni maggiori per il movimento?
Penso che il modo migliore per sentirsi ispirati è riconoscere che ogni giorno ci sono persone che vengono uccise nel Sud del mondo soltanto perché vogliono vivere, mentre io sono qui, seduta davanti al mio portatile a Londra, e il sole splende fuori dalla finestra.
ⓢ Vi state espandendo in questo Sud del mondo?
Abbiamo delle connessioni. Non per forza dei gruppi di Extinction Rebellion, ma altri gruppi che supportiamo. C’è un cerchio chiamato Relationships che tiene questi rapporti. Ma è difficile, perché lavoriamo con delle persone che a un certo punto… spariscono. O meglio, sono fatte sparire.
ⓢ Prima o poi toccherà a tutti? E pensi che la ribellione possa vincere presto?
Che si possa vincere presto: no. Ma te lo dico con una prospettiva da qui, dal Regno Unito. Era possibile, sì, che tutte le nostre richieste venissero accettate in un anno o due dall’inizio della ribellione. Ma non è successo. E ora, in un certo senso mi sembra che se ne stiano accorgendo più persone che mai prima, e siano spaventate, e pronte all’azione. È un contesto molto diverso rispetto a quello in cui siamo nati, nel 2019, quando cercavamo di creare consapevolezza. Ora penso che chiunque sia mortalmente spaventato. In un certo senso dovrebbe essere più facile, purtroppo questa consapevolezza così generale si porta dietro anche una sorta di apatia. Se riusciremo a mobilitare un enorme numero di persone in modo pacifico, è meno probabile che si debba arrivare a ribellioni violente. Ma quando le cose peggioreranno in modo irrimediabile, le persone si ribelleranno. E se succederà, non potremo chiedergli di essere non-violenti.
ⓢ Che rapporto avete con i media?
Pessimo. Non con i media indipendenti, con cui abbiamo spesso ottimi rapporti, ma non buono con i grossi gruppi. Coinvolgere le persone con conversazioni porta a porta è stata una rivelazione per noi. Dobbiamo puntarci sempre di più. La crisi climatica è la più grande minaccia che la specie umana abbia mai affrontato, eppure non ne parliamo: non ne parliamo con i nostri vicini, non ne parliamo con i nostri colleghi. Questo tipo di conversazioni sono invece fondamentali.
ⓢ C’è un’opportunità che nasce da quello che sta succedendo in Ucraina, e nell’accelerazione verso le energie rinnovabili che lo stop al gas russo dovrebbe portare? O è solo una pezza che servirà a poco?
Più passa il tempo, più direi la seconda. E sostituire l’energia che utilizziamo adesso con energie rinnovabili non è la soluzione al problema. Dobbiamo ristrutturare completamente la nostra società: usare meno energia. E questa conversazione non è ancora nemmeno iniziata.