Attualità

It’s ok to be Takei

Internet ama George Takei, dovreste amarlo anche voi. Come un ultrasettantenne, ex di Star Trek, si è trasformato in un'icona dell'America che cambia.  

di Anna Momigliano

Se qualcuno gli chiedesse come ha fatto a diventare una rockstar della Rete alla soglia degli ottant’anni, George Takei potrebbe rispondere: volli sempre volli fortissimamente volli. Ma più probabilmente si limiterebbe a fare un saluto vulcaniano. Oppure commenterebbe con uno dei suoi storici «Oh, my!» – da pronunciare con voce baritonale e una ostentata alzata di sopracciglia: la sua specialità d’istrione, che gli è valsa un numero infinito di imitazioni e video virali, e che dà il titolo al suo ultimo libro, Oh Myyy! (There Goes The Internet). Dove si discute, appunto, della sua ascesa inusuale a fenomeno del web, del senso della vita ai tempi di Facebook, di diritti civili, di matrimonio omosessuale, nonché di icone della nerdosfera, quali Gandalf e Yoda.

Per gli appassionati di fantascienza, per i baby boomer melanconici e per i nostalgici in genere, Takei è prima di tutto un attore della serie originale di Star Trek, quella degli anni Sessanta: interpretava Hikaru Sulu, il timoniere dell’Enterprise con il pollice verde e l’hobby della scherma. I milioni di fan che oggi lo seguono online hanno un’età media compresa tra i 25 e i 35 anni, «è la generazione di South Park, più che quella di Star Trek», per dirla con parole sue: molti di loro, verosimilmente, di “Mister Sulu” hanno sentito parlare per la prima volta quando hanno digitato “George Takei” su un motore di ricerca.

Con quattro milioni e mezzo di like su Facebook, e una media di condivisione dei suoi post nell’ordine delle decine di migliaia, BuzzFeed l’aveva dichiarato «migliore Twitter stream» nel 2011. L’anno successivo Mashable l’ha incoronato «superstar dei social media».

Sbarbatello devoto: «Le nozze gay sono un peccato mortale contro Dio». Risposta di George Takei: «Anche andare in giro con quella giacca»

Più recentemente, è stato uno dei protagonisti della campagna online per il riconoscimento i diritti gay. Lo scorso maggio, quando un’associazione di studenti cristiani aveva organizzato una serie di manifestazioni contro il matrimonio e le adozioni per le coppie omosessuali, Takei ha lanciato, in collaborazione di BuzzFeed, una contro-campagna virale (il solo post originale ha totalizzato un milione e trecentomila visite). Per ogni cartellone dei giovani conservatori, una risposta ad hoc dell’attore. Sbarbatello devoto: «Le nozze gay sono un peccato mortale contro Dio». Takei: «Anche andare in giro con quella giacca». Cocca di mamma: «Senza un padre e una madre, non sarei qui». Takei: «Intendi a una protesta omofoba?». Fanciulla uber etero: «Non potrei mai sposare una donna». Risposta: «Nemmeno io».

Infatti Takei, classe 1937, è sposato con tale Brad Altman, un produttore hollywoodiano di quindici anni più giovane: i due sono convolati a nozze nel 2008, non appena il matrimonio omosessuale è stato reso possibile in California, dopo oltre vent’anni di fidanzamento. Il marito, e più nello specifico il di lui sovrappeso, è oggetto frequente della battute di Takei. Che pure, nel corso della sua carriera ha dimostrato una rara attenzione nel non urtare le sensibilità altrui, a cominciare da quella dei ciccioni. Col tempo ha conquistato un pubblico trasversale grazie alla sua capacità, unica nel suo genere, di rispondere per le rime ai bacchettoni di tutto il mondo, senza mai abbassarsi al loro livello.

La sua battuta pronta, tagliente ma mai velenosa, è l’elemento distintivo del brand Takei, un timbro di comicità diametralmente opposto allo humour – geniale, ma a tratti incattivito, prima ancora che politicamente scorretto – di mostri sacri come Louis C.K. e Sarah Silverman. Quando un politico ultraconservatore ha proposto una legge che avrebbe vietato agli insegnanti del Tennessee di pronunciare la parola «gay» in classe, Takei ha risposto con un breve filmato in cui si rivolgeva, suadente, ai docenti: «Non preoccupatevi, prof, da domani potete dire ai vostri alunni “non c’è nulla di male ad essere Takei”». In breve il video divenne virale, il web si popolò di meme, GIF e affini ad esso ispirati. E ben presto “it’s ok to be takei” divenne uno slogan.

Quando Victoria Jackson, una comica vicina al Tea Party, con un passato al Saturday Night Live e una notevole somiglianza con Miss Piggy dei Muppet, ha accusato il telefilm Glee di «invogliare gli adolescenti a diventare gay», Takei ha risposto con un tweet: «Onestamente, se c’è qualcuno che può fare diventare un ragazzino gay, penso che sia proprio Victoria Jackson». Cui è seguita la rettifica: «Normalmente trovo di pessimo gusto prendermi gioco di una persona grassa, a meno che questa persona non sia mio marito. Ma Victoria Jackson se l’è meritata».

Oggi la missione di Takei è «rispondere all’odio con l’umorismo». Eppure, quando è approdato su Internet qualche anno fa, non era questo il suo obiettivo. All’inizio del 2011, aveva aperto una pagina su Facebook e un account su Twitter per mantenere i contatti con i fan della serie originale di Star Trek. Demografia di riferimento: nerd stagionati. Si trattava di una community di sì e no qualche migliaio di persone. Su Twitter, Mister Sulu ringraziava singolarmente ogni nuovo follower. Su Facebook, manteneva un approccio para-adolescenziale (e stiamo parlando di un ultrasettantenne). Postava immagini buffe che trovava in giro, talvolta su segnalazione del marito, talaltra di un sottopagato assistente – tale Rick Polito, che più in là si sarebbe lamentato pubblicamente della sua condizione di ghost writer, creando un piccolo psicodramma da cui Takei è uscito più che vincitore. In principio, si diceva, la presenza internet di Takei si riassumeva nella funzione di snodo e cassa di risonanza per materiale vario, del genere LOL.

Poi, lo Tsunami. Che nel marzo del 2011 causò il disastro nucleare di Fukushima e almeno quindicimila vittime in Giappone. E che segnò la transizione dell’identità online di Takei da diffusore occasionale di meme ad attivista social. Non appena giunta la notizia del maremoto, Takei diffuse sul suo account di Twitter le informazioni per fare donazioni alla croce rossa nipponica: «Oggi siamo tutti Giapponesi». Poco dopo quel tweet, venne contattato da diverse televisioni statunitensi: «Ero la celebrità di origine asiatica con la maggiore visibilità online», ricorderà nel suo memoir. «In effetti un primato non molto difficile da ottenere…»

L’infanzia l’ha trascorsa dietro a un recinto di filo spinato. La sua famiglia è stata deportata in un campo d’internamento, «e tutto perché somigliavamo ai tizi che avevano bombardato Perl Harbor»

Takei è nato a Los Angeles da due genitori di origine giapponese, ma entrambi californiani da generazioni: il padre era di San Francisco, la madre di Sacramento. L’infanzia l’ha trascorsa dietro a un recinto di filo spinato. Quando aveva cinque anni, la sua famiglia è stata deportata in un campo d’internamento, «e tutto perché somigliavamo ai tizi che avevano bombardato Perl Harbor». Un destino condiviso da altri 120 mila americani di origine giapponese, internati in “zone speciali” tra il 1942 e il 1946. I Takei furono trasferiti a forza prima nel campo di Rohwer, nell’Arkansas, e successivamente nei pressi del lago Tule, in California. «I miei primi ricordi sono una pozzanghera da cui noi bambini catturavamo i girini e un cancello di filo spinato», avrebbe raccontato sull’Huffington Post. «Vivevamo isolati da tutto e da tutti».

Tramandare la memoria dei campi di prigionia – uno dei capitoli più bui della democrazia statunitense, per cui si sarebbe scusato pubblicamente lo stesso Ronald Reagan – è per lui una vocazione, tanto quanto lo è la causa gay: «Considero una missione della mia vita assicurarmi che la storia e le lezioni dell’internamento dei giapponesi americani non siano mai dimenticati», scrive. La Memoria, per lui, non è mai fine a se stessa. «Le persone come me, coloro che sono passati attraverso questo fallimento, si rendono ben conto di quanto velocemente le libertà e i diritti che diamo per scontati possano erodersi o scomparire del tutto». Takei, che pure è un fan di Obama, non ha esitato a tirare fuori il paragone quando sono emersi gli elementi su Prism, il programma segreto di sorveglianza da parte del governo: «Sappiamo come può andare a finire questa faccenda» ha dichiarato al New York Magazine, «dobbiamo tenere la guardia alta davanti alla violazione del nostro ideale fondamentale di democrazia».

Dopo l’iniezione di notorietà seguita allo Tsunami, Takei si rende conto di avere un’arma in mano. E non ha paura a usarla. Per tramandare la storia dei giapponesi americani, sensibilizzare l’opinione pubblica sui diritti omosessuali – proprio mentre alcune battaglie, a cominciare da quella per il riconoscimento delle nozze gay, si stavano avvicinando a una fase cruciale. E, nel contempo, condividere cazzatine, preferibilmente a tema fantasy o science fiction. Nessuna contraddizione, per come la vede lui: «Condividere qualcosa sui social media non è soltanto una questione di strappare qualche LOL. Alla sua base c’è una dichiarazione del proprio sistema di valori… un sistema di valori che in genere include la saggezza di Yoda, di Gandalf o qualcosa del genere».

Dall’essere “una delle poche celebrità di origine giapponese con una presenza su Twitter” a diventare una rockstar dei social media, il passaggio è breve. Ma anche più studiato di quanto non si tenderebbe a pensare. «Se sono riuscito ad avere un tale impatto con soltanto qualche migliaio di fan, perché non cercare di allargarmi e costruirmi una base più grande?» si chiede a quel punto Takei. «Volevo costruire una comunità che potesse ridere, condividere e discutere le questioni pressanti della società». E ancora: «Desideravo una comunità di follower impegnati, non di semplici fan. Per me i social media dovevano essere un’impresa interattiva, non semplicemente reattiva. E ogni retweet doveva volere dire, implicitamente, “capisco la battuta e l’approvo”».

La sua combinazione, così semplice eppure così distintiva, di umorismo ed empatia – a me piace chiamarlo “sarcasmo compassionevole” – ha fatto di George Takei un punto riferimento per una generazione di giovani americani. La sua solidità sta nell’avere compreso l’importanza di ingaggiare il pubblico, cosa che si era già vista quando, forse goffamente, teneva a ringraziare uno per uno ogni singolo follower. La risposta pronta e l’umanità, il suo vissuto di emarginazione e di riscatto, fanno di Takei un piccolo grande romanzo americano: l’ingrediente essenziale per una riedizione “social” di un ben noto archetipo, quello del «bravo ragazzo con la lingua biforcuta», che già fu di Dan Savage. Nulla è troppo buonista, se detto da George Takei. Nessuna stoccata corre il rischio di apparire incattivita, se a portarla a segno è Mister Sulu. Perché, per dirla con le sue parole, «dare dello stronzo a uno stronzo a volte è esattamente quello di cui c’è bisogno».

 

Dal n. 15 di Studio