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Abbiamo tutti smesso di respirare

La morte di George Floyd e il Coronavirus: l'assenza di ossigeno è un segno di questo strano e terribile tempo.

di Letizia Muratori

Una manifestante indossa una mascherina con scritto "Non posso respirare" mentre si riunisce per piangere la morte di George Floyd durante una veglia in Piazza Catalunya il 4 giugno 2020 a Barcellona, in Spagna (Foto di David Ramos / Getty Images)

George Floyd è stato trovato positivo al Coronavirus, ma non è morto per questo, era asintomatico e i suoi polmoni non risultavano compromessi. Il virus a quanto pare lo aveva risparmiato, con lui non si era accanito, ma ci ha pensato la polizia razzista a toglierli il respiro. È una storia emblematica che racconta molto del momento che stiamo vivendo. Non c’è bisogno di essere afroamericani per sentirsene coinvolti. Floyd è stato barbaramente soffocato in una società asfittica in cui l’aria comincia a mancare a tutti. La notizia della sua positività è un dettaglio che sembrerebbe quasi chiudere un cerchio, ha il sapore crudele di una beffa. E visto che nei cerchi chiusi ci girano a vuoto i criceti, vale la pena ripartire da un punto qualsiasi di questa vicenda che è ancora aperta.

A fine giugno dell’anno scorso, nel confronto per le primarie, quando Kamala Harris, facendo da par suo un po’ di spettacolo, ricordava a Biden di essersi compromesso con un paio di senatori segregazionisti e di non aver appoggiato i busing – ovvero la pratica, attiva già negli anni Cinquanta, di assegnare a scuole bianche alcuni studenti appartenenti alle minoranze etniche – il vecchio politico democratico aveva solo abbozzato una difesa: non si era opposto ai busing in sé, ma a quelli imposti dal Dipartimento dell’Istruzione. Però non aveva chiarito la differenza, perché la sua risposta, implicita, era un’altra: «Cara la mia Kamala, è lunga da spiegare, lasciamo stare». Biden non era solo troppo vecchio, aveva troppo passato politico alle spalle. Da straniera, questo peso mi appariva un handicap, ma forse sottovalutavo il bisogno di essere rassicurati di molti democratici americani. Puntavano su un Vice e forse sulla First Lady di qualcun altro, quasi che di presidenti ne avessero le palle piene. Un desiderio forte e, visto il Paese di cui parliamo, inconfessabile. I desideri inconfessabili c’è il rischio che vincano, alle urne.

Ma qualche giorno fa Biden, mentre il Cicciobello cattivo in carica ravanava nel cesto dei giocattoli e ci pescava una Bibbia, mi ha spiazzato. Se ne è uscito con una frase da vero presidente, esplicita, unitaria e prospettica: «Non dimentichiamo le ultime parole di George Floyd: Non respiro. Sono un campanello d’allarme per tutti noi… Non sono morte con lui, risuonano nel Paese». Risuonano, c’è da chiedersi, solo negli Stati Uniti? Tentando di rispondere, bisogna fare qualche passo indietro. È ragionevole sospettare che negli ultimi mesi molti di noi abbiano letto, e atteso, le notizie con un atteggiamento diverso da prima. Tanto per cominciare, c’era un’unica storia da seguire: il Coronavirus. Secondo, la vicenda ci riguardava tutti. Al consueto: Vediamo un po’ che è successo oggi nel mondo o nel nostro condominio nazionale, si era sostituito: Vediamo cosa sta per succedermi, ovunque io sia, in ogni momento. I vari aggiornamenti non ci trovavano distratti, né impreparati. Eravamo sempre, come si dice, sul pezzo. Tutte le notizie – dal Papa solo alle prese con il buio vuoto, al bollettino della Protezione Civile, passando per quella curiosa mania di far rientrare nella categoria breaking news certi compleanni celebri, auguri a distanza compresi – si intrecciavano sul tronco principale del racconto che stavamo seguendo.

In Italia eravamo giusto arrivati al momento delle riaperture, puntate meno cupe della serie, tanto per dirne una: avevamo ripreso a offenderci, che è pur sempre un segno di speranza, se qualcuno non ci voleva subito ospitare in vacanza. In Europa anche si seguivano gli sviluppi, in Brasile si raccoglievano i frutti di un criminale, insomma, ovunque andava avanti il racconto aggiornato del Coronavirus: finché negli Stati Uniti non è morto George Floyd, e parecchia gente è scesa in strada. Allora il New York Times ha iniziato a occuparsene, apparentemente ha cambiato canale, per sintonizzarsi su un programma forse inconsueto da quelle parti, ma non altrove, centrato sui distinguo tra i manifestanti violenti e i non violenti.

A scatenare la rivolta è stata una scena, gelida, di schiene imbustate di poliziotti contro quella di un gigante fragile in canottiera. L’assassinio di George Floyd ha interrotto la continuità del racconto epidemico, scalzando – l’impressione è questa – il Coronavirus, facendolo invecchiare di colpo. Si dirà, sai che scoperta: è la stampa, bellezza. Eppure perfino in questo scarto americano c’era odore di sequel, di continuità. La materia del racconto, a prescindere dai fatti di cronaca, era sempre la stessa: il respiro, o meglio, la sua mancanza. C’è modo e modo di morire, Floyd non è stato ucciso dalla polizia razzista alla maniera tristemente nota: con un colpo d’arma da fuoco. Al di là dei referti autoptici, di cui in certi casi è bene non fidarsi, lo abbiamo visto tutti come è successo? Ce lo ha detto lui stesso: «Non respiro, amico, non respiro».

Floyd è stato ucciso, al tempo stesso ha lasciato questo mondo soffocando, come è accaduto a migliaia di persone nei reparti di terapia intensiva o nei letti di casa loro. Paura, violenza, ingiustizia, pregiudizio, caso si sono dati un macabro appuntamento a Minneapolis, abbattendosi su un disoccupato afroamericano che andava a comprare le sigarette con un pezzo da venti dollari, forse falso. Ferme restando le responsabilità personali, in ballo c’è qualcosa che le incornicia, che le inquadra. E le cornici contano, specie quando scatenano reazioni collettive.

Cosa inquadra la scena di George Floyd all’interno di un racconto che continua? Cosa dobbiamo ricordare accogliendo l’invito presidenziale di Biden? Sono mesi che abbiamo a che fare con immagini di persone che fanno i conti con l’aria che respirano, o che li fanno con il proprio respiro.

I lettori, perfino i lettori di news, aggiornandosi, non dovrebbero sottovalutare l’importanza dei segni, le analogie che legano un racconto e lo rendono tale. Possono anche credere alle coincidenze, nessuno le nega e pretende di ingabbiare la varietà delle circostanze nelle maglie di un unico disegno, ma come l’informazione, seria, ha il dovere di creare un primo piano, il lettore ha quello, speculare, di esplorare l’intero paesaggio, di percorrerlo varcando un confine che è, appunto, la cornice. Cosa inquadra la scena di George Floyd all’interno di un racconto che continua? Cosa dobbiamo ricordare accogliendo l’invito presidenziale di Biden? Sono mesi che abbiamo a che fare con immagini di persone che fanno i conti con l’aria che respirano, o che li fanno con il proprio respiro. Mesi che ci attacchiamo a macchine e filtri, mesi che sentiamo il pericolo circolare nell’aria, che l’atto che ci rende vivi, scontato e automatico, non lo è più. Mesi in cui si è continuato a morire anche d’altro – di tutto, certo, i medici ce lo ricordano ogni cinque minuti. Ma cosa rende questa morte, per soffocamento, tanto prepotente e minacciosa da apparire addirittura inedita?

Il sospetto che non siamo di fronte a una malattia curabile in ospedale, se quell’ospedale è dentro una società malata. Ammesso che si riesca a venirne fuori, cosa ci aspetta dopo? In che consiste la riabilitazione? Il vaccino da trovare non riguarda solo l’uomo, ma il sistema in cui vive. Le sanificazioni, termine sgradevole che porta con sé un’eco di sterminio, non sono sufficienti. L’allarme ambientalista che vede nella deforestazione – e anche qui si parla di un polmone messo male – uno dei suoi pilastri, si è miracolosamente congiunto a quello storico e sociale che faticava a emergere come intollerabile e soffocante sul piano individuale. Non parlo a chi non ha mai sottovalutato le relazioni intime tra il culto liberista della crescita e il disastro ecologico, tantomeno dico che la battaglia verde fosse astratta da un contesto, figuriamoci, il punto è che potrebbe aver trovato nuovi militanti. Insospettabili, chiamiamoli pure runner che sentono d’avere il fiato corto. Dio solo sa quanto li ho odiati, eppure mi sono chiesta il perché certe figure bolse e poco atletiche si fossero messe, all’improvviso, tutte a correre. Si sfogavano? Più che altro andavano a caccia di ossigeno, rubandomelo e inquinandomelo, perché lo cercavo anche io: pretendevo la mia razione, possibilmente pulita.

Visto che i ricordi significativi si nutrono di dettagli, di stranezze, e permangono proprio nel loro staccarsi dalla media, la voce di George Floyd era, sì, sofferente e in agonia, ma nel fondo restava vitale, fino all’ultimo respiro. È stato ammazzato come una bestia, da bestie che apparivano perfino distratte, ucciso non da un uomo, ma da un ginocchio. Raramente, in tempi estranei alla pratica del linciaggio, si è visto qualcosa di altrettanto osceno e amorale – per una volta vale la pena dirlo – ma quella voce ha messo George Floyd al riparo dalla degradazione che lo circondava e che di fatto lo schiacciava. È una faccia, diventerà un simbolo, ma è quel tono incredulo, fedele a se stesso, il tono di chi muore da uomo vivo, cui manca il respiro, che aggiunge un altro capitolo alla storia che stiamo vivendo.