Cultura | Cinema

Cosa raccontano i film della Generazione Z

Dal più recente Ma Nuit fino a Shiva Baby una nuova generazione di registi, soprattutto di registe, sta provando a raccontare la vita e i dilemmi di chi oggi ha meno di venticinque anni.

di Benedetta Barone

Marion ha diciotto anni. Si sfianca di passeggiate attraversando Parigi, si sofferma a riprendere improvvisi scorci naturali con il cellulare, giochi di luce, il movimento delle foglie sollevate dal vento sulla Senna. Le inquadrature si soffermano sul suo viso in primo piano, sempre gonfio di pianto. Cinque anni prima ha perso la sorella maggiore. È sospesa, insieme alla madre, in una non vita, in un tempo vuoto che non produce nulla. Non sa che fare di sé. Esce, incontra gente nuova. Va a ballare. Resta fuori tutta la notte. Le conversazioni a cui tenta di prendere parte sono sfilacciate, inconsistenti. Al dunque, chi la accompagna la abbandona distrattamente, e lei rimane sola.

Non è tanto il ricordo del lutto a tormentarla. È più che altro una sensazione di catastrofe, di morte imminente che dilaga dappertutto e altera, corrompe i luoghi che frequenta, quasi fosse una cifra della contemporaneità. Quando si trova dentro uno spaccio alimentare a comprare da bere insieme alle amiche, due arabi cominciano un violento diverbio e arrivano quasi ad accoltellarsi. Uno sconosciuto le importuna sul vagone della metropolitana. Una coppia di ubriachi la ferma mentre cammina da sola per le strade della città deserta. Un boato in lontananza è subito eco di attentato, di attacco terroristico. A un certo punto un ragazzo di nome Alex le domanda, a bruciapelo: «Ma perché stai in giro? Perché fai serata con gente che nemmeno ti piace?». E se lo scompenso di Marion fosse un pretesto per descrivere un fenomeno di portata ben più ampia? Ma nuit, debutto alla regia di Antoinette Boulat, è uscito in sala il 12 gennaio.

Giovani sotto i venticinque, alle prese con il proprio solitario, disperato affanno, sono ormai il manifesto dell’ultima generazione di cineasti, anzi, di cineaste, considerando che si tratta quasi e solo di donne agli esordi, per giunta coetanee delle protagoniste che rappresentano. Basti pensare a Shiva Baby di Emma Seligman, che nel 2021 aveva ventisei anni e presentava una studentessa universitaria interdetta dalla facoltà di decidere del suo avvenire e letteralmente oppressa, schiacciata, torturata dalle pretese intrusive dei genitori. A una cerimonia funebre ebraica, detta appunto shiva, sua madre e suo padre vorrebbero mandarla a caccia di contatti e offerte lavorative, famigliari e amici la compatiscono, perfettamente a conoscenza del suo «avere cambiato facoltà almeno una dozzina di volte», finché lei si getta a terra, in lacrime, al culmine di una spirale nevrotica. «Non lo so. Non lo so che cosa farò», singhiozza.

Lo stesso anno esce Actual people di Kit Zauhar, classe 1995, proprio come Seligman. Anche in questo caso Riley, iscritta all’ultimo anno di filosofia in un college di Manhattan, si arresta a un passo dalla laurea. Conduce un’esistenza effervescente, partecipa a molte feste, esce tutte le sere, le sue compagne di scuola la definiscono «così intelligente». Eppure, non riesce a cavare dentro di sé nemmeno un briciolo di energia né di concentrazione per passare l’ultimo esame, tant’è che viene bocciata ed è costretta a rimandare la data del diploma. Intorno a sé, tutti sono immersi in un fermento di progettualità. Hanno in mente di trasferirsi, ottengono borse di studio, tirocini prestigiosi. Lei «non fa assolutamente niente», ammette alla psicologa del campus. Si torce le mani dal senso di colpa. Cosa dirà a casa? Come Danielle, finisce a piangere tra le braccia della madre, che non sa bene come consolarla. Infatti, anche per Riley l’indecisione rispetto al proprio futuro professionale non è che un paravento che slatentizza e scopre punti ben più dolenti: trovarsi alla fine dell’epoca dorata e frivola della prima giovinezza e rendersi conto che tutto sta cominciando a esaurirsi, a erodersi.

Ubriacarsi, folleggiare, parlare del più e del meno, corteggiare sedicenti conoscenze che il giorno dopo si sfilano frettolosamente perché non hanno intenzione di iniziare niente di serio. Tutto ciò che prima rappresentava il corollario eccitante della sua vita da matricola, comincia a mostrare un lato squallido, grottesco, decadente. Solo che è l’unica realtà accessibile, l’unica dimensione effettiva. Il domani è come precluso. Lei e le sue amiche parlano di «una tipa che produce yogurt con lievito vaginale», «Tu lo mangeresti?», organizzano la serata, «Andiamo al Bed Stuy?», «No, troppo lontano», digitano sullo schermo dei cellulari. L’unica prospettiva è un lavoro dove «si fissa Gmail tutto il giorno».

Qualche mese fa Mubi ha proposto all’interno di una sua rassegna El planeta di Amalia Ulman. Leonor è costretta a tornare nella città d’origine in Spagna perché la madre non può più permettersi di mantenerla a Londra, dove si era trasferita per studiare. Nonostante la condizione economica nella quale sprofondano le imporrebbe di trovare alla svelta un lavoro, lei non sembra prenderlo in considerazione. All’inizio incontra uno sconosciuto in un bar per offrirgli prestazioni sessuali, ma rifiuta quando scopre che la pagherebbe circa venti euro a servizio. «C’è un libro che voglio che costa esattamente 19,99. Mi chiedo se valga la pena succhiare un cazzo per un libro», gli spiega, imperturbabile. Perciò ammazza il tempo. Passeggia per le strade devastate dalla crisi, compra cianfrusaglie, si prepara per appuntamenti al buio con la musica a tutto volume. Sfoglia i filtri di Instagram. Quando staccano la corrente dal loro appartamento si esaspera perché non può finire di asciugarsi i capelli. Investire su di sé, coltivare un’ambizione, non sembrano opzioni sul tavolo. Ci si ritira dall’arena per rifugiarsi in un “qui e ora” permanente, dalle tinte disturbanti. Alla fine del film, Marion dice ad Alex: «Io mi sento così tutti i giorni, sempre. Vorrei sapere quando è iniziato tutto questo», e gli occhi le si riempiono di lacrime.

Il cambiamento climatico spunta a singhiozzo dappertutto, come se fosse un personaggio ulteriore, invisibile e di cui tuttavia non si può fare a meno di constatare l’immobile, muta presenza. Alex studia geologia, ma si è ritirato dall’università. Le dottrine che suggeriscono soluzioni tecno-ottimiste al fine di convivere con la disfatta ecologica lo rendono furioso e impotente: «Dovremmo combattere per la Terra che abbiamo già». «La vita è un sogno infranto. Accettiamo la morte, accettiamo le catastrofi», gli suggerisce malinconicamente Marion. In El planeta, la madre di Leonor legge ad alta voce, sfogliando i giornali: «La spiaggia di San Lorenzo puzza di merda. Secondo i surfisti, stamattina i nuotatori hanno trovato schiuma marrone e altre sostanze sulla riva», mentre la figlia tace, disgustata, sembra trattenere l’impulso di strapparle la pagina dalle mani. «Il riscaldamento globale è solo temporaneo. Raggiunto il punto di rottura, la Terra invertirà la sua carica e distruggerà tutto», dichiara una ragazza in Actual people, durante una festa. Subito un’amica di Riley replica: «Ma non è istantaneo, sai? Dovremo comunque avere che fare col riscaldamento globale e col fottuto buco dell’ozono». «Sì, ma succederà dopo la nostra morte e succederà comunque», ribatte la prima, e l’altra: «Bel modo di pensare al tuo ruolo di essere senziente».

Forse abbiamo sottovalutato il senso di irrilevanza che la maggior parte dei giovani prova dopo decenni di crisi. «Non si può vivere come se il mondo stia per finire», dice qualcuno in Actual people. Eppure in un certo senso è così. L’ingresso tra le maglie della società produttiva implica un orizzonte entro il quale immaginarsi, e se questo orizzonte risulta via via più compromesso non dovremmo stupirci che in molti di loro si scateni l’impulso di disertare, fingersi morti, registrarsi come “forza assente”.

Di ogni generazione è stato fatto un calco, una riproposizione  che ha provato a coglierne l’essenza, i tratti principali. La Chinoise di Godard, The Dreamers di Bertolucci, Zabriskie Point di Antonioni raccontavano i giovani degli anni ’60.  Eden di Mia Hansen-Løve o Trainspotting hanno provato, invece, a incarnare lo spirito dei ’90.  Sono ovviamente solo alcuni tra i possibili esempi. La Generazione Z prende i volti di Marion, Danielle, Riley, Leonor. Non hanno una passione da difendere, una postura identitaria da nutrire. Studiano, si impegnano, vorrebbero davvero aspirare a qualcosa, essere raccolte da un percorso concreto. Ma ne sono come impossibilitate. Prendono atto della mancanza di senso del mondo. Abitano un tempo che ha perso i suoi punti di riferimento: senza passato e privo di futuro, anche la trasgressione e il nichilismo esauriscono la loro carica oppositiva. Ci si appende all’oggi, navigando a vista, in uno stato di cieca paralisi. Sembra che il cinema stia arrivando prima di altri a sapercelo raccontare.