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Conoscete i Future Islands?

Dalle derive punk dei primi dischi al piano di diventare i paladini del pop romantico contemporaneo, la storia della scalata al successo della band di Samuel T. Herring, che stasera sarà a Milano.

di Cesare Alemanni

Nel ciclo vitale di una band indipendente americana la prima apparizione a un late show è un’occasione da dentro o fuori. Giocarsela bene significa guadagnare più fan in cinque minuti che negli X anni di carriera precedenti ma proponi una performance insipida e ti troverai rispedito a suonare davanti a cento persone in piccoli club. Per i Future Islands quell’occasione si è presentata il 3 marzo scorso quando sono stati invitati a esibirsi davanti a David Letterman, il Gran Mogol degli host contemporanei ormai a pochi mesi dal ritiro.

La loro esibizione veniva subito dopo l’intervista al secondo ospite della serata, Brendan Marrocco, un giovane sergente dell’esercito che nel 2009 ha perso tutti e quattro gli arti in Iraq. Una situazione emotiva delicata da gestire per chiunque, immaginate per dei debuttanti in quel contesto. Una situazione che i Future Islands hanno risolto così:

La reazione di Letterman al termine dell’esecuzione di Seasons (“Oh buddy, come on! I’ll take all of that you got! That was wonderful!”) è stata la stessa avuta da milioni di spettatori e così i Future Islands sono passati, nel volgere di una serata, da band per pochi intimi a nuova sensazione del momento con gli inevitabili meme a corredo, lanciati dallo stesso Letterman nei giorni successivi alla performance, e tour mondiale che li ha portati a suonare al Tunnel di Milano dopo essere passati dal Circolo degli Artisti di Roma.

Personalmente ho “scoperto” i Future Islands alla fine del 2011, su suggerimento di quella che allora era la mia ragazza, e ovvero quando l’album On The Water, il loro terzo lavoro in studio, aveva iniziato ad avvicinarli al livello di popolarità attuale ma è stato solo qualche giorno fa che li ho visti dal vivo per la prima volta. Suonavano all’Astra, un locale di Berlino strapieno nonostante fosse capiente il triplo di quello in cui, a quanto mi è stato detto, hanno suonato l’ultima volta che sono passati in città due anni fa. Ci sono andato incuriosito. Volevo sapere se quella sera da Letterman Sam Herring aveva dato tutto quel che aveva o quel genere di performance era normale amministrazione per lui. È saltato fuori che era normale amministrazione.

Samuel T. Herring è il frontman dei Future Islands e un buon 90% delle ragioni per cui si parla della band e questo senza voler sminure i meriti degli altri componenti, su tutti quelli del bassista William Cashion, ovvero la cosa più vicina alla seconda venuta di Peter Hook da molti anni a questa parte. Dal vivo Herring sposa la teatralità di un frontman da opera rock, la frenesia di un cantante hardcore, l’intensità emotiva di un soulman, il tutto senza trascurare una simpatica verve da outsider, da sfigato di successo, negli intermezzi parlati col pubblico.

A dispetto del cognome, Herring non ricorda affatto un’aringa. È semmai un tipo breve e massiccio con una presenza fisica sul palco, sovente strizzata in t-shirt nere o colletti alla coreana progressivamente più fradici con l’andare delle canzoni, che è stata paragonata da qualcuno a una fase nel processo di trasformazione di Bruce Banner in Hulk. Ha poi anche quel genere di faccia – un accenno di stempiatura sulla fronte e lo sguardo ardente – che un tempo, diciamo negli anni ’80, sembrava essere la dotazione standard di qualunque frontman post-punk salvo poi essere ritirata dal mercato.

I Future Islands sono originari del North Carolina. Herring, Cashion e il synthista Gerrit Welmers studiavano arte insieme in un’università di Greenville e, dopo un paio di band abortite, hanno formato i Future Islands nel 2006 prima di trasferirsi a Baltimora e gravitare in area Wham City, un colletivo di muscisti e artisti fondato da Dan Deacon.

Il primo lavoro come Future Islands è l’EP Little Islands, dell’aprile 2006, a cui fa seguito, un paio di anni più tardi, Wave Like Home, il primo long play, un disco di riempitivi synthpop e buoni pezzi post-punk, in cui gli ingredienti che hanno determinato le successive fortune del gruppo sono già tutti lì, ma mescolati in proporzioni non ottimali e spesso senza una grande impronta personale.

È col disco successivo, In Evening Air, che i FI iniziano a mettere maggiormente a fuoco il suono che li renderà popolari (purtroppo, almeno per chi scrive, accantonando un po’ le derive punk dei primi dischi) con il basso di Cashion a guidare pezzi ricorsivi e la teatralità di Herring a raccontare amori finiti come fossero cataclismi di proporzioni bibliche. Una combinazione che ottiene il plauso della critica e le prime attenzioni del pubblico.

Il già citato On The Water, il seguito di In Evening Air, e il recente Singles da cui è tratta Seasons, mettono ancora più a punto la formula e rendono definitivamente chiaro che 1) il piano dei Future Islands è di diventare i paladini del pop romantico contemporaneo e che 2), dato questo scopo e a meno che non inizi a dedicarsi a tempo pieno alla sua prima passione, Samuel T. Herring è l’uomo giusto nel posto giusto e al momento giusto. L’unica nuova voce con abbastanza anima e carisma da non far scadere nel triviale un pezzo come, per citarne soltanto uno, Grease, che altrimenti, nel secondo decennio dopo il duemila, si potrebbe scambiare per uno scherzo o una provocazione. E forse, in effetti, è in parte entrambe le cose – che il beneficio dell’ironia di questi tempi non lo si nega a nessuno. Ma è anche una canzone che, date certe condizioni nella vostra vita sentimentale, potreste scoprirvi ad ascoltare un numero esasperato di volte. Parlo per esperienza.