Cultura | Dal numero

Ritratti di famiglia su TikTok

Genitori iscritti in massa, nonni con milioni di follower e presunte influenze cattive sui giovani. Come va il rapporto tra generazioni sull'app?

di Arianna Giorgia Bonazzi

Jenny Krupa, 88 anni, su TikTok è @its_j_dog

Questo è uno degli articoli raccolti nel numero speciale di Rivista Studio, tutto dedicato all’app cinese di proprietà di ByteDance, una piattaforma che in due anni sembra essersi evoluta più velocemente di quanto abbia fatto Instagram negli ultimi dieci. Per scoprire il resto del numero, con saggi, interviste, reportage e approfondimenti su come TikTok sta cambiando il senso della bellezza e del desiderio, la musica, la moda, la cultura pop e in generale il nostro modo di stare su internet, puoi trovarci in edicola o comprare una copia qui.

Se si considera la velocità di un social come TikTok a cambiare prima l’estetica dominante, e poi la sua stessa natura e le sue regole interne, i tempi dei balletti coi filtri luccicanti sembrano quasi remoti; e tutto sommato, sono ormai “vecchi” anche i video con cui le teenager denunciano le violenze contro gli Uiguri girandosi le ciglia. Le terribili challenge che incoraggiavano i ragazzini a ingurgitare capsule di detersivo per lavastoviglie e a sballarsi trattenendo il respiro sembrano a loro volta meno rappresentative di un social interessato da un profondo mutamento demografico, oltre che da una stretta sul “digital well-being”. Risale all’aprile dell’anno scorso, dopo che la app era stata multata di oltre 5 milioni di dollari per violazione dei diritti alla privacy dei minori, l’introduzione del family pairing, la funzione che permette ai genitori, scaricando l’app, di collegarsi da remoto all’account dei figli per limitarne il tempo di utilizzo, l’accesso a contenuti sensibili e lo scambio di messaggi privati con sconosciuti.

È divertente pensare, anche se probabilmente è falso, che sia stata proprio l’iscrizione in massa dei genitori all’app a cambiare la composizione anagrafica degli utenti, che oggi conta un 15 per cento di 45-54enni, mentre un 10 è nella fascia 55-64. Fatto sta che tra parental control e noia pandemica, gli adulti approdati su TikTok, lungi dal rimanere silenti custodi di profili di minori, per ora non hanno nemmeno fatto fuggire i giovani al grido di “cringe”, ma si sono amalgamati ai figli con hashtag come #daddycool e #granniesfortiktok. Negli ultimi due anni, in controtendenza rispetto alle macabre prove del Blue Whale – il fantomatico gioco che portava i giovani al suicidio, e che forse non è mai esistito – si sono diffuse challenge che coinvolgono l’intera famiglia in sfide di agilità o sfacciataggine, in un quadretto multigenerazionale quasi melenso per un’epoca che vede sgretolarsi i ruoli tradizionali. “Hey, mum!” inizia un trend popolare in cui, di scena in scena, una bambina evoca l’ingresso della madre, e via dicendo fino ad arrivare alla trisavola. Forse, proprio perché orfani delle castrazioni della famiglia borghese, i ragazzini si abbandonano volentieri al filone nostalgico, sistemandosi nelle pose di vecchie foto al ritmo di “I’m just a kid, my life is a nightmare”: un ripiegamento che sarebbe più accettabile per un ultrasessantenne. Invece, spesso, i profili dei nonni (che rappresentano oggi il 3 per cento del popolo di TikTok) sono più dissacranti e meno inclini all’autocommiserazione.

Jenny Krupa, 88 anni (@its_j_dog), in un POV, prima si rattrista per la morte di un’amica settantenne, poi si esalta nello specchietto dell’auto per quanto è fico il suo outfit da funerale. La sua ironia riguarda sempre l’età, e in un altro video porta il deambulatore a una coetanea, ma le lancia un’occhiataccia perché quella vince sempre a bingo. Krupa, 2 milioni di seguaci, ci tiene a dire che fa tutto questo non per i numeri, ma per passare del tempo su TikTok con suo nipote, come avviene per la maggior parte dei profili di grannies in tutto il mondo (in Italia c’è nonna Giovanna, che amministra il suo profilo assieme al nipote Nicola). Paky, tiktoker avellinese da 15 milioni di follower e un profilo dai colori psichedelici, coinvolge spesso la mamma nei suoi reverse, video mandati al contrario che si aprono su lui che pulisce la mamma dalla panna di una torta in faccia, per poi comporle attorno emoji amorose e cuoricini. È abbastanza singolare che i membri di una fascia d’età nota per fenomeni come l’autolesionismo e la Dad siano così aperti all’arrivo dei propri familiari su un social nato per loro.

@paky__officialBackstage!##tutorial Invisible woman ##trend 👩🏻😱How to avoid getting sick🦠😷Do you want to see the result?😍##perte ##foryou ##italy ##fyp ##4u ##bts ##lol♬ original sound – Jillian !

Forse, una spiegazione, rispetto alla nostra generazione cresciuta con il grunge e il punk, è l’immersione nella cultura rap e trap, dove la figura della mamma è insieme musa, dea del focolare, martire e nutrice. L’atteggiamento delle famiglie online è in ogni caso ambivalente. Da un lato, nella sezione Guida Genitori del Centro Sicurezza di TikTok, stilata dagli adolescenti, c’è la richiesta esplicita di rispettare la loro privacy evitando di seguirli sui social (“aiutami a capire le regole fidandoti di me”); dall’altro il consiglio reiterato dei pedagoghi è di rendere il social network più innocuo prestandosi a fare video coi ragazzi: è dell’anno scorso una serie di video in cui registi seriosi apparivano sullo sfondo dei balletti dei figli; su tutti, ricordo un mite Cuaròn che rumina cereali perplesso mentre un’adolescente appare posseduta da un’allegra dance-routine.

Accanto a queste blandizie, permane, in realtà acceso, il panico morale: un fenomeno da sempre legato alle nuove tecnologie, e quindi a maggior ragione all’oscuro social cinese dall’algoritmo poco chiaro, bandito da Trump e famoso per rubare i dati dei nostri ragazzini e talvolta ucciderli nei bagni. L’anno scorso, la morte di una bambina siciliana trovata impiccata in gabinetto era stata collegata proprio alla sfida del soffocamento sul social; prima di lei, si indagava sulle correlazioni tra Internet e un ragazzino gettatosi da un balcone di Napoli per volontà di un «uomo incappucciato». Si è pensato a una variante della Momo Challenge, un fenomeno di adescamento online che, sebbene non abbia prodotto decessi accertati, si basa sugli screenshot, potenzialmente finti, di conversazioni tra account che usano la foto profilo di Momo (una scultura giapponese che rappresenta lo spirito di una donna morta di parto) e ragazzini che vengono incoraggiati a compiere prove rischiose o letali. Anche se oggi la “musica” su TikTok sembra cambiata, la stampa americana continua a collegare mode come lo “schiaffeggiamento degli insegnanti” o il furto di materiali scolastici a delle ipotetiche sfide nate sul social cinese, cosa che evidentemente per i media appare più facile che responsabilizzare i teenager su certi atti di incoscienza, insubordinazione e violenza. Un aspetto interessante della censura di questi anni, non solo sui social, ma in generale, è proprio che, rispetto ai nostri tempi, ha riguardato la violenza più del sesso. Del resto, la violenza è il contenuto più stigmatizzato dalla comunità dei censori perché è anche la presunta conseguenza dell’uso improprio dei nuovi media da parte dei giovani.

Lo scorso Halloween, molti si sono indignati perché alcuni genitori avevano permesso ai figli di vestirsi come i protagonisti di Squid Game, anche se ho la sensazione che l’unica scena di sesso di Squid Game fosse molto più violenta delle scene di violenza (la cui visione, certo, necessitava di una guida adulta). Questa ossessione della società contemporanea per la violenza (associata già da decenni ai videogame) in un certo senso è rispecchiata da certi contenuti e trend popolari su TikTok: abbondano scene recitate e poco credibili di violenza domestica, in cui mariti energumeni urlano contro mogliettine intente a cucinare e strofinare, finché un figlio piccolo irrompe a schermare la mamma. E l’unica volta che mia figlia ha preteso, in lacrime, di segnalare un account, si era trovata di fronte a un presunto video di violenza sugli animali, dove piccole prede erano inghiottite da belve più feroci. A settembre, in risposta al panico morale dal quale TikTok non riesce a smarcarsi, e che ultimamente ha riguardato molto anche gli incoraggiamenti all’anoressia, il social ha attivato una campagna di salute mentale rivolta in particolare a chi ha fantasie suicide: si trattava di una serie di video con suoni di intensa vitalità, come il battito cardiaco in un’ecografia prenatale, o le grida festose di un matrimonio. Un’iniziativa virtuosa, o l’ennesima pezza simile al pairing familiare, i cui limiti sembrano evidenti.

Controllare infatti il tempo speso sul social è una misura risibile, se il filtro dei contenuti è fallace. Quest’ultimo dipende infatti dalla sensibilità degli utenti, soggettiva e in continua evoluzione. Mentre pensare di censurare, per esempio, tutti i contenuti sulle droghe o sulle sparatorie nelle scuole può tagliar fuori anche i video di sensibilizzazione o denuncia su questi temi. Più che provare a dialogare con l’algoritmo, quindi, mi pare utile dialogare con i ragazzi, che restano di gran lunga i principali utenti del social. Gli stessi che si vaccinano più di noi, e che ci chiedono aiuto a districarsi nei contenuti a cui sono esposti. Che sono sempre più consapevoli della propria impronta digitale, e a vol- te denunciano la madre per costringerla a togliere dalla rete le loro immagini postate con superficialità. Che forse sono anche contenti di fare un balletto di 15 secondi con noi o di tirarci una torta in faccia per un post. Ma che più probabilmente hanno bisogno di boe e rotte offline. A un certo punto, TikTok, sempre nell’ambito di queste politiche sul benessere psicologico, ha iniziato a commissionare ai creator video che incoraggiassero i giovani a disconnettersi per leggere un libro. Sì, fa ridere. Però suggerisce ai genitori, che barcollano tra bandire tutto e sculettare come Jalaiah Harmon, di essere (anche) quell’oggetto che aspetta fuori dal social, per spiegare cosa è vero, cosa è violento e cosa pericoloso. Per tracciare un segno reale, del quale il parental control è solo il tenue fantasma.