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L’era dell’audio

Le copie di Clubhouse fatte da Twitter e Facebook e gli investimenti sui podcast confermano che la voce è diventata la tendenza su cui tutti stanno puntando.

di Federico Gennari Santori

Uma Thurman in "Pulp Fiction"

La storia delle Stories si ripete. Sembra passata una vita da quando Instagram copiò di sana pianta il formato video introdotto da Snapchat, condannando la piattaforma a una prematura stasi e, in Paesi come l’Italia, all’oblio. Oggi non ci meravigliamo più quando Facebook annuncia la sua entrata nel mondo dell’audio. Stavolta l’azienda – denunciano molti – ha messo nel suo mirino Clubhouse, l’app per le conversazioni vocali in diretta che ha spopolato all’inizio del 2021. Vero. L’invenzione c’è. La scopiazzatura, come vedremo, anche. Tuttavia, per quanto sia appassionante la riproposizione dello schema Davide-contro-Golia, il movente non è la cannibalizzazione di quella che, tutto sommato, resta un piccola piattaforma (12 milioni di utenti nel mondo, 500 mila in Italia). Se le app di Mark Zuckerberg iniziano l’ennesima cavalcata, significa che di fronte a sé vedono una prateria da occupare.

Nel 2020, secondo Nielsen, 13,9 milioni di italiani hanno ascoltato podcast, oltre il 15 per cento in più rispetto all’anno precedente. Abbiamo conosciuto progetti di successo che hanno fatto da apripista e sono nate case di produzione di podcast, come Storielibere e, più recentemente, Chora Media. Gli audiolibri, complice anche la spinta che Amazon ha dato alla sua piattaforma dedicata, Audible, hanno registrato un incremento del 94 per cento nel 2020, arrivando a rappresentare il 7,4 per cento del valore dell’intero settore editoriale. Infine è arrivata anche Clubhouse, un fenomeno tanto esclusivo (tuttora è disponibile solo su iOS) quanto dirompente. I segnali – anche se più lenti rispetto a quanto ci ha abituato l’era del digitale – erano già inesorabili, poi la pandemia ha accelerato tutto. Ora non si può più ignorare: l’audio, la cosa che ritenevamo più scontata nel mondo dei media, è un tema.

Si sa ancora poco, ma Facebook prepara essenzialmente tre mosse. Una versione audio delle Room, gli ambienti di conversazione creati ieri come alternativa agli aperitivi su Zoom e convertiti oggi a doppione delle stanze di Clubhouse. Un nuovo tipo di contenuto: il Soundbite, che per intenderci ribattezziamo “aggiornamento di stato vocale”. L’integrazione dei podcast all’interno del social network, che darà agli utenti la possibilità di trovarli, sceglierli e ascoltarli senza uscire dall’app, grazie a una collaborazione con Spotify. Passiamo ai dettagli tecnici più rilevanti, tra i pochi forniti dall’azienda. A differenza di Clubhouse, Facebook permetterà di salvare e convertire in podcast le conversazioni che avvengono nelle Room. Per i Soundbite sarà poi attivato un nuovo strumento di registrazione, con tanto di effetti vocali. Inoltre, i creator potranno beneficiare di un sistema di retribuzione.

Facebook si sta rimodulando per integrare una nuova forma di comunicazione. Sfrutterà le sue risorse tecnologiche ed economiche per migliorare qualcosa che già si fa altrove. E gradualmente convincerà gli utenti a farla proprio all’interno di Facebook, offrendo loro possibilità tecniche identiche se non migliori, ma soprattutto un pubblico – e quindi un’attenzione – con cui nessun’altra piattaforma può competere. Registrare audio e darli in pasto ad amici e follower dove già li abbiamo è più semplice di linkarli da altre piattaforme o di costruirsi un seguito ex novo. Così è andata in passato e così potrebbe andare ancora una volta. Intorno al 2015 due start-up, Periscope e Merkaat, ebbero l’intuizione di rendere possibile per chiunque lanciare una diretta video: Facebook si trasformò per far esplodere questo nuovo trend e le mille live a cui abbiamo assistito durante i lockdown dimostrano che ha funzionato. Poi fu la volta delle Stories, mutuate da Snapchat e ben presto monopolizzate. Più di recente, anche se con esiti meno strabilianti, è toccato alla funzione sync di TikTok, portata su Instagram attraverso i Reel. Ed eccoci al presente, con Clubhouse: è lì che bisogna andare.

Perfino due grandi piattaforme che non hanno brillato per reattività se ne sono accorte. Twitter avrebbe tentato una delle sue migliori mosse degli ultimi 5 anni offrendo 4 miliardi di dollari per l’acquisizione di Clubhouse e, dopo aver incassato un rifiuto, ha deciso di sfruttare l’affinità tra la sua utenza e quella della piattaforma vocale (per settimane sul Twitter italiano non si è parlato d’altro) con la sua versione delle stanze audio, Spaces. LinkedIn ha fatto lo stesso, seguiranno dettagli. Spotify, oltre a essersi accordata con Facebook, attiverà a sua volta una funzione per andare in diretta audio e dialogare con gli utenti. C’è convergenza nel digitale, eppure c’è qualcosa di più rispetto ai casi precedenti. Questo ritorno all’oralità non porta con se solo un nuovo format da utilizzare o di cui fruire, ma anche un altro modo di conversare.

In fondo Clubhouse non ci ha fatto scoprire niente di nuovo o di diverso da quanto avviene ogni minuto in radio. Lo ha solo semplificato e messo a disposizione di chiunque, facendoci scoprire che possiamo farlo e può essere appagante. Meno esposizione di un video, meno disintermediazione del commento a un post. Forse, meno verticismo e meno autoreferenzialità, per il numero potenzialmente più alto di interlocutori coinvolgibili e per l’assenza di immagini che altrimenti condizionano svolgimento e apparenze. Le “zoommate” e le lunghe telefonate che siamo tornati a concederci più frequentemente durante il lockdown hanno conciliato questa scoperta (o riscoperta). Che, insieme al progressivo ritorno alla normalità di una vita in movimento, potrà incoraggiarci più volentieri a staccare gli occhi dai display per favorire l’unico tipo di contenuto che al contempo permette di fare altro senza perdere in articolazione e profondità: quello audio.

Era il 2018 quando su Rivista Studio scrivevamo che con molta probabilità la prossima tendenza social sarebbe stata la voce. Oggi ci sono ulteriori elementi a favore di questo scenario. Lo dicevamo riferendoci all’avvento degli assistenti vocali sul mercato: i colossi hi-tech annunciavano investimenti miliardari per lo sviluppo di smart speaker in grado di capirci e ci proiettavano verso lo scenario di un dialogo uomo-macchina non più soltanto metaforico ma effettivo. Quel dialogo sta avvenendo, ma non è ancora abbastanza efficiente né diffuso. Come siamo arrivati a chattare normalmente con dei bot per ottenere informazioni e fare prenotazioni dopo il boom della messaggistica istantanea via internet, arriveremo a parlare con voci robotiche dopo la diffusione massiva di conversazioni audio online.

In tutto questo Clubhouse non è che un tassello e perfino la copia che ne sta per fare Facebook è soltanto il pezzo di un mosaico più ampio e complesso. La voce è una tendenza della comunicazione di cui piattaforme, brand e creator dovranno tenere conto. Con le costanti che nel digitale ogni tendenza degna di questo nome porta con sé: problemi di privacy e problemi di moderazione dei contenuti. Una nuova opportunità e una nuova sfida da affrontare.