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Negli Usa il Parmigiano Reggiano è così popolare che un’agenzia di Hollywood lo ha messo sotto contratto come fosse una celebrity La United Talent Agency si occuperà di trovare al Parmigiano Reggiano opportunità lavorative in film e serie tv.
I farmaci dimagranti come l’Ozempic si starebbero dimostrando efficaci anche contro le dipendenze da alcol e droghe La ricerca è ancora agli inizi, ma sono già molti i medici che segnalano che questi farmaci stanno aiutando i pazienti anche contro le dipendenze.
Kevin Spacey ha raccontato di essere senza fissa dimora, di vivere in alberghi e Airbnb e che per guadagnare deve fare spettacoli nelle discoteche a Cipro L'ultima esibizione l'ha fatta nella discoteca Monte Caputo di Limisso, biglietto d'ingresso fino a 1200 euro.
Isabella Rossellini ha detto che oggi non è mai abbastanza vecchia per i ruoli da vecchia, dopo anni in cui le dicevano che non era abbastanza giovane per i ruoli da giovane In un reel su Instagram l'attrice ha ribadito ancora una volta che il cinema ha un grave problema con l'età delle donne. 
Da quando è entrato in vigore il cessate il fuoco, le donazioni per Gaza si sono quasi azzerate Diverse organizzazioni umanitarie, sia molto piccole che le più grandi, riportano cali del 30 per cento, anche del 50, in alcuni casi interruzioni totali.
Lorenzo Bertelli, il figlio di Miuccia Prada, sarà il nuovo presidente di Versace Lo ha rivelato nell'ultimo episodio del podcast di Bloomberg, Quello che i soldi non dicono.
Il più importante premio letterario della Nuova Zelanda ha squalificato due partecipanti perché le copertine dei loro libri erano fatte con l’AI L'organizzatore ha detto che la decisione era necessario perché è importante contrastare l'uso dell'AI nell'industria creativa.
Per evitare altre rapine, verrà costruita una stazione di polizia direttamente dentro il Louvre E non solo: nei prossimi mesi arriveranno più fondi, più telecamere, più monitor, più barriere e più addetti alla sicurezza.

Essere un freelance al Cairo

Trovarsi a scrivere di Egitto in Egitto: l'esperienza di un coetaneo di Giulio Regeni.

09 Febbraio 2016

La storie dei freelance che lavorano al Cairo si assomigliano tutte: lavoro di notte per chiudere un pezzo (di giorno, solitamente, si fa un altro lavoro o si studia) giornali che pagano poco o non pagano affatto, email senza risposte, affitti da pagare, i lettori italiani che se ne fregano della politica estera, colleghi in redazione che hanno capito poco e comunque accusati di non poter scrivere di Egitto perché non sanno l’arabo, progetti da finire, viaggi da programmare. È un piccolo mondo che mi è capitato, in parte, di conoscere quando ho deciso di andare a vivere per un anno nella capitale egiziana tra il 2011 e il 2012, dove ho fatto corrispondenze telefoniche, scritto qualche articolo e, soprattutto, passato diverse mattinate a studiare l’arabo.

Al Cairo la vita costa poco e perciò anche per i freelance è possibile guadagnare abbastanza per andare avanti in modo dignitoso quando l’attenzione mediatica è alta. Negli altri periodi ci si arrangia. Anche per questa ragione, tanti finiscono per fare i ricercatori, i traduttori o scelgono un altro mestiere. È una forma di giornalismo ibrida, dove si finisce per pubblicare un pezzo perché si ha qualche contatto in una redazione e bisogna convincere qualcuno che vale la pena pagare una trentina di euro per pubblicare online un articolo. È un tentativo che spesso fallisce, soprattutto all’inizio, quando ci si sente investiti della missione di spiegare agli italiani che gli arabi non assomigliano granché a quelli di cui parlano i giornali. C’è il coinquilino attivista, l’amica che porta il velo e si è laureata da poco, il blogger ateo, l’amico gay, il giovane islamista anti-regime conosciuto in manifestazione e il professore di arabo dei Fratelli musulmani, che hanno qualche ingiustizia da raccontare e su cui scrivere. C’è il desiderio di far conoscere le loro storie e la consapevolezza di sentirsi probabilmente rispondere che il pezzo è interessante, ma purtroppo al momento non sarà pubblicato, si vedrà in futuro.

C’è il desiderio di far conoscere le storie e il sentirsi dire che il pezzo è interessante, ma non sarà pubblicato

Ho vissuto nella capitale egiziana da ottobre 2011 fino a settembre 2012. Alcuni dei fatti più importanti della storia recente di questo Paese sono accaduti sotto la mia finestra di Garden City, a cinque minuti da piazza Tahrir. Quando c’erano le manifestazioni e la polizia arrestava i manifestanti, le ambulanze che portavano i feriti al vicino ospedale di Qasr-al-Ayni passavano a pochi metri da casa mia. Mi ricordo l’odore acre dei lacrimogeni e ancora conservo la mascherina che portavo con me quando mi sedevo su una panchina di piazza Tahrir, qualche metro dietro a via Mohammad Mahmoud, da dove arrivavano i ragazzi per essere curati sui tappeti allestiti a pochi metri dagli scontri, ma non mi sono mai sentito in pericolo. A ogni manifestazione portavo il mio passaporto italiano per farlo vedere a chi si improvvisava addetto alla sicurezza in piazza Tahrir, convinto che mi avrebbe garantito una protezione da qualsiasi problema, a differenza dei tanti ragazzi egiziani che sono stati arrestati negli ultimi anni. Mi illudevo che sarebbe bastato quello, ma la cronaca recente mi ha fatto capire che mi sbagliavo.

I siti di informazione preferiscono ricevere le notizie per decidere di pubblicarle e perciò la sicurezza per i freelance è soprattutto una loro responsabilità. Ogni situazione va valutata con cura e i contatti devono essere scelti con la massima attenzione. Non sono mai stato una persona imprudente e anche quando i carri armati hanno schiacciato i giovani cristiani che protestavano a Maspero, a pochi metri da casa mia, ho preferito evitare di avvicinarmi troppo. Di quell’anno ricordo le attese con il telefono in mano, la corsa nel caffè di via Qasr al-Ayni per ricaricare la batteria. Gli amici che mi chiedevano scherzando «enta gasusa?» (“sei una spia”?) e il sospetto che qualcuno di loro lo pensasse davvero. I taxisti che mi prendevano in giro per il mio arabo classico e chiedevano se fossi un giornalista di al-Jazeera. Le chiamate al centro in cui studiavo arabo per dire che avrei saltato la lezione perché avevo una corrispondenza telefonica da fare. Le telefonate su Skype alla mia fidanzata e ai miei genitori per dire che quello che si vedeva in televisione era esagerato, diverso dalla città che stavo vivendo. L’abbraccio (non ricambiato) di un salafita in tunica bianca alla notizia della vittoria di Morsi, le corse nelle vie secondarie per prendere la linea telefonica, la città che non faceva altro che discutere di politica, la curiosità di saperne di più.

EGYPT-VOTE-PARLIAMENT

Sono entrato con un visto turistico e ho sempre scritto i pezzi con il mio nome. Se ripenso all’Egitto che ho lasciato sono cambiate tante cose e forse oggi non farei più la stessa scelta. Quando c’era il governo militare e la presidenza Morsi al potere importava poco degli stranieri, mentre oggi sono state approvate delle leggi che consentono di arrestare i giornalisti (anche stranieri) con l’accusa di avere legami con i «terroristi», una definizione che include anche i membri dei Fratelli musulmani. Prima bastava rimanere qualche passo indietro, ora è diventato un po’ più rischioso raccontare questo paese, che nel frattempo è diventato più sospettoso e rassegnato. Io sono tornato nella mia città natale e sono un po’ invecchiato. Qualche volta sono tornato in Egitto per brevi periodi. Mi sono ripromesso di scrivere un libro su quei giorni, che ho iniziato e non ho mai finito, anche perché, nel frattempo, ho scelto un altro lavoro e un’altra vita.

Immagini: veduta del fiume Nilo. 25 gennaio 2016 ; un soldato sorveglia lo svolgersi delle elezioni di novembre 2015 (Khaled Desouki/Afp/Getty Images).
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