Attualità

Due parole con Martina Testa

Editor e traduttrice, con lei abbiamo appunto parlato di tradurre, leggere, editare; della crisi del sistema editoriale italiano, di quando è cominciata. E del perché la gente legge meno libri, ma questo non significa per forza che stiamo diventando tutti più cretini. Anche se il rischio che sparisca un certo modo di vedere il mondo c’è.

di Timothy Small

Pubblichiamo un’intervista estratta da Scrivo, lo speciale digitale di Studio uscito lo scorso luglio. Lo trovate ancora su Port Review e, naturalmente, sulla nostra app per iPad.

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Martina Testa è nata a Roma nel 1975 ed è stata, fino a pochi mesi fa, il direttore editoriale di minimum fax, casa editrice indipendente che, per molti anni, ha rappresentato la definizione di “casa editrice indipendente” in Italia. Martina ha tradotto quasi cinquanta libri dall’inglese all’italiano, per minimum fax e altre case editrici, specializzandosi sugli autori americani contemporanei. Fra gli autori su cui ha lavorato ci sono David Foster Wallace, Jonathan Lethem, Cormac McCarthy: autori che sarebbero il sogno di molti traduttori. Come direttore editoriale, poi, ha pubblicato altri grandissimi scrittori, americani e non, da Donald Barthelme a Richard Yates, da Jennifer Egan a Donald Antrim. Poi, come un fulmine a ciel sereno nel panorama dell’editoria indipendente italica, Martina e minimum fax hanno divorziato, e lei è tornata a dedicarsi principalmente alla sua prima passione: la traduzione. Insomma: non c’erano molte persone più adatte di lei in Italia a parlare di libri e di quello che diventeranno.Prima di iniziare, un disclaimer: io e Martina ci conosciamo da qualche anno, e non abbiamo mai perso occasione di parlare di editoria ogni volta che ci siamo visti; di dove sta andando, di cosa sta succedendo, di quale direzione potrebbero prendere le cose. Ho pensato, quindi, di registrare l’ultima di queste nostre conversazioni, strutturandola con un po’ più di accortezza, e trasformarla in un’intervista per le pagine di Scrivo. Mi sembrava importante dirlo, anche per evitare di far finta che io e Martina non ci conoscessimo e fare la farsa delle domande con il lei. Se la conversazione ha un tono troppo scanzonato e la cosa vi irrita, perdonatemi. Sappiate che non è artificioso. Parliamo così. E, dato che quando abbiamo parlato, Martina aveva da poco lasciato la casa editrice per la quale aveva lavorato per quasi quindici anni, la conversazione, ovviamente è partita da lì.

Come ti stai adattando alla tua nuova vita da freelance?

Guarda, sono pessima. Sto nell’ozio più totale. Negli ultimi giorni, presa un po’ dall’ansia, sto iniziando a lavorare un po’ di più. Il problema di tutti i traduttori è sempre quello: c’è il giorno che faccio dieci cartelle, e mi dico, fantastico, posso fare dieci cartelle in un giorno, e il libro è 250 cartelle, quindi in 25 giorni ho finito il libro! Però poi in realtà non è mai così. Ne faccio dieci un giorno, poi il giorno dopo ne faccio tre, poi mi dico che recupero, e si continua così.

Come vedi tu la traduzione?

Io non credo molto nel fatto che la traduzione sia quest’operazione artistica, autoriale, la vedo molto più come una cosa di artigianato, di manovalanza. Non penso che tu debba aspettare “l’ispirazione”. Però certi giorni ingrani e altri no. E poi, se lo stai facendo per tre ore di fila, la quarta e la quinta ti vengono. È la prima ora e mezza che finisci sempre su Internet, o Facebook. E poi dipende da quando lavori. Se sto lavorando all’una di notte normalmente fino alle due e mezza continuo come un treno. Ma il pomeriggio mi posso mettere davanti al computer alle tre e fino alle sei non faccio nulla. Ma questi non sono problemi gravi.

No. Ma quali lo sono?

Be’, se sei freelance, come lo sono io ora, il problema è se il committente non ti paga il lavoro. E per come sono messe le case editrici adesso… diciamo che mi faccio il segno della croce.

Poi tu hai iniziato come traduttrice, no? Diciamo che nell’ambito editoriale hai iniziato così? Ti consideri principalmente ancora quello?

Mah, diciamo che i primi passi sono andati in entrambe le direzioni di pari passo. Forse cronologicamente sì, ho fatto prima le traduzioni. La prima mi fu assegnata da Simone Caltabellota, che è stato editor di Fazi per tanto tempo, ed era un libro di Elizabeth Strout, che ha poi vinto il Pulitzer in anni più recenti con Olive Kitteridge. All’epoca non lavoravo ancora a minimum fax, ma ho cominciato a correggere le bozze lì sei mesi dopo, forse un annetto dopo. Quindi i tempi eran quelli. Poi ho cominciato a lavorare lì in redazione, poi ho fatto l’editor, e il direttore editoriale, tutto quanto, ma nel frattempo ho sempre tradotto sia per minimum che per altri. Quindi entrambe le cose sono sempre state affiancate.

C’era ancora la speranza. Io sono entrata in una fase leggermente tardiva, tante case editrice cosiddette “nuove” erano già in piedi. Ma nella seconda metà degli anni ‘90 a Roma si era creato una sorta di polo, diciamo, alternativo a quello dei grossi gruppi del Nord.

Quindi hai iniziato così?

In realtà entrambe le cose nascono con dei contatti che mi ero fatta anni fa, per amicizia, per incroci di interessi, anche prima, lavorando a una piccola rivista letteraria, con Christian Raimo, e Simone Caltabellota, e Cassini, che all’epoca era l’editor di minimum fax, c’era anche Vincenzo Ostuni che ora è a Ponte Alle Grazie, c’era Flavia Abbinante, che adesso sta a Bollati Boringhieri. La rivista si chiamava Elliot, avevamo tutti tra i 25 e i 30 anni. Ne facemmo tre numeri, finì così, per questioni di tempo, di soldi. Quindi il concetto di rivista letteraria è una cosa a cui sono sentimentalmente legata, perché così ho iniziato a lavorare con loro, con Fazi, con minimum, che allora erano case editrici piccolissime, dove lavoravano amici e parenti. Conta che nel ‘98-’99 minimum fax era agli albori, non aveva ancora iniziato a pubblicare Carver.

Era già finita la fase in cui mandavano, letteralmente, i fax?

Sì, era già finita, quello era a metà degli anni ‘90, mi sa che fu tra il ‘94 e il ‘96-’97. Facevano già i libri, forse avevano già fatto alcuni libri di Carver ma non avevano ancora preso i diritti per l’opera omnia di Carver in quella leggendaria asta in cui offrirono tanto quanto Einaudi. Ma la vedova, Tess Gallagher, preferì l’offerta di questi giovani intraprendenti, e lo confermò proprio via fax, dicendo «siete gli editor di Raymond Carver», e quindi pianti, abbracci, leggenda. Quello sarà stato il ‘99. Non ci lavoravo ancora dentro pienamente. Avevo conosciuto Marco in quel periodo, ma non ero ancora entrata.

Tu a livello generazionale, hai visto un periodo dell’editoria italiana in cui, quando sei entrata, c’era ancora, come dire, la speranza. E hai visto le cose deteriorarsi.

[ride] Sì, infatti, è assurdo! C’era ancora la speranza. Io sono entrata in una fase leggermente tardiva, tante case editrice cosiddette “nuove” erano già in piedi. Ma nella seconda metà degli anni ‘90 a Roma si era creato una sorta di polo, diciamo, alternativo a quello dei grossi gruppi del Nord. Voland, minimum fax, Fandango: parecchi sono nati in quel periodo lì. L’ultima di queste indipendenti avventurose e giovani è stata forse ISBN, ma penso fosse già il 2004-2005.

E nel 2004-2005, era già cambiato qualcosa? Nel senso… te lo dico apertamente: oggi, quando penso all’editoria, non so come dire, ma mi viene una sensazione come una grande tristezza.

Madonna! A me pure, tantissimo. C’era uno spirito proprio diverso, allora. È difficile per me stabilirlo con precisione, ma penso forse attorno al 2006, è cambiato qualcosa. Te lo dico nella maniera più banale, terra-terra. Mi ricordo che intorno a quegli anni abbiamo iniziato effettivamente a parlare di soldi, di vendite, di copie, a chiederci se un libro avrebbe ripagato le spese. Forse anche per imperizia, per scarsa competenza, professionalità, quel che vuoi, ma erano cose fatte con passione più che in maniera studiata, seria. Certi discorsi non li affrontavamo proprio. Ma il fatto che non li affrontassimo era anche sintomo del fatto che forse non era necessario affrontarli. Il modo di campare – nessuno è mai diventato ricco – si trovava. Anche senza un’attenzione alla parte commerciale, anche se non sapevamo bene come si facesse, i libri, in qualche maniera, si vendevano. Forse anche da soli. Da un certo punto in poi abbiamo dovuto iniziare a fare dei discorsi che prima non facevamo: rientrare con le spese, eccetera. Nei primi anni non parlavamo mai di questo. Non si sentiva mai dire, «No, ragazzi, questo libro non lo possiamo fare perché anche se ci piace non lo vendiamo». Non c’era questa cosa perché forse eravamo incompetenti. Ma sta di fatto che pure non facendoli, questi discorsi, le 2-3 mila copia di un esordiente americano si vendevano.

Oggi 3 mila copie per un esordiente che scrive un romanzo diciamo “letterario” vuol dire vendere benissimo.

Per carità! Oggi svariati libri, nel primo anno, non superano le mille copie. Libri che magari un tempo venivano prenotati tantissimo. Quello è veramente grave. Non ne so molto, perché ho sempre lavorato molto sui testi e poco sul resto, ma sta di fatto che noi abbiamo lanciato una serie di autori, tipo Lethem, Antrim, Ali Smith, A.M. Homes, gente che in Italia era sconosciuta, ma le prenotazioni ai tempi erano tali da consentire una prima tiratura di tremila copie. Oggi sarebbe inaudito. Non so cosa sia successo, ma a un certo punto il canale di vendita delle librerie si è come intasato, qualcosa si è bloccato. Le grandi catene non li ordinano, perché non sono prodotti sicuri. Ormai si vendono i libri in cui si sa già cosa c’è dentro, che sia perché è identico ad altri dieci libri, o perché l’autore è famoso perché, che cazzo ne so, è uno della televisione. Quelli li prendono in blocco. Di tutto il resto ordinano una, due copie. E le librerie che non ragionano in questi termini sono meno. In generale, gli interlocutori disposti a rischiare con la cosiddetta “literary fiction” sono molti meno: i librai, gli editori, tutti. Il problema è che, secondo me, questi libri non vanno più di moda.

Oggi svariati libri, nel primo anno, non superano le mille copie. Libri che magari un tempo venivano prenotati tantissimo. Quello è veramente grave.

In questo primo numero di Scrivo che sto curando alla fine quest’argomento viene fuori sempre di più. È un po’ impossibile non parlarne. Magari quattro anni fa “il futuro del libro” era un argomento. Oggi ho come l’impressione che sia come l’unico vero argomento rimasto. Quindi: perché, secondo te, siamo in questa situazione oggi? Se non si vende in libreria è perché si vende di più su Internet? O direttamente su Kindle? Ma io ho come l’impressione che, come dici tu, il libro in generale sia una cosa sempre più sul viale del tramonto. Anche sommando le vendite su Kindle, Amazon, eccetera. Penso che forse sia solo una cosa finita, o che sta finendo.

Anche io. Ora, non vorrei dare l’impressione di voler fare il guru dell’editoria, non vedo le mie parole come oro colato, la mia è un’impressione del tutto personale. Secondo me è venuta a mancare, e di questo ho una conoscenza di prima mano, una fascia di lettori che è quella dei giovani, di buona cultura, con due soldi in tasca, che potrebbe comprarsi i libri, che studia. Quando io ero piccola, c’erano quelli che facevano musica e suonavano, c’erano gli appassionati di cinema, c’erano quelli che volevano fare i cabarettisti, che ne so, ma c’era anche un sacco di gente che leggeva. Parlare di libri era parte della conversazione di tutte queste persone. Gente che parlava di metal e punk, o se preferiva dei chitarristi fusion o dei Nirvana, parlava anche di libri. Ci si prestava libri a vicenda, si andava in libreria. E non eravamo figli di professori o di scrittori. Ma il concetto molto normale del dirsi, «che facciamo, usciamo, andiamo in libreria a guardare qualcosa» era sempre presente. Secondo me oggi, a parità di condizioni economiche e intellettuali, uno fra i 18 e i 25 non legge. La musica magari tira come sempre, ma la televisione, il cinema, i videogiochi, la moda… il libro, che sia elettronico, o meno, parlo proprio del sedersi lì e leggere una pagina dopo l’altra, mi sembra una cosa che non si fa più, insomma. In libreria non ci vedo mai ragazzi sotto i 25 anni. Ma anche se mi capita di parlare con gente di 27-29 anni, gente intelligente, che ama magari il cinema, e va alle mostre, beh, non li sento mai parlare di romanzi. Anche i romanzi che vanno. Non sento la presenza dei romanzi nella loro vita. Certo, va bene la narrativa per ragazzi, o i libri young adult, ma la fascia di quei lettori lì secondo me sta sparendo. Li abbiamo proprio persi. Quando ho iniziato a lavorare a minimum fax, avevo 25 anni, e facevo libri per i miei coetanei, e mi sembra di aver continuato a farli per i miei coetanei, ma quelli più piccoli li abbiamo persi.

Ovviamente stiamo generalizzando.

Sì. Ovviamente. E non voglio dire che siano stupidi o cretini.

Secondo me è venuta a mancare, e di questo ho una conoscenza di prima mano, una fascia di lettori che è quella dei giovani, di buona cultura, con due soldi in tasca, che potrebbe comprarsi i libri, che studia.

No, è proprio l’atto della lettura di un libro. È una banalità, ma sull’autobus io non vedo quasi mai i libri, e ne vedo sempre meno. Vedo gente con lo smartphone che sta su Facebook o Instagram o su WhatsApp oppure, magari, gente con l’iPad.

Ma anche io leggo molto di meno.

Anche io. Moltissimo meno.

Poi, anche se sono impedita a giocare ai videogiochi, guardo la gente giocare. Trovo che sia una forma di intrattenimento pazzesca, mi dà un piacere, non dico pari a quello del cinema, ma quasi. E devo ammettere che se quando avevo 18 anni ci fosse stata la PlayStation3 con giochi come The Last Of Us, e la sua suspense, francamente col cazzo che avrei passato tutto quel tempo a leggermi Baricco. Sì, c’era l’Amiga, ma non era lo stesso spettacolo pazzesco su uno schermo da 50 pollici, poi giochi con storia, narrazione, cose pazzesche, personaggi a cui ti affezioni, e lo vedi benissimo, in alta definizione, su uno schermo immenso… cioè, capisci. Quando mi viene voglia di dire, OK, mo’ basta, mi metto a leggere Gadda? E lo dico io, che faccio la editor, diciamo un’intellettuale, paladina dei libri e cazzi e mazzi, e se lo dico io, figurati cosa può pensare un ragazzino di 18 anni che magari non è nemmeno nato e cresciuto in un ambiente propizio a questo.

Posso tenere l’espressione “cazzi e mazzi” nella trascrizione finale dell’intervista? O vuoi che la tagli?

[ride] Puoi metterla! Comunque ci tengo a dire che io questa cosa non la guardo con disperazione. Cioè, sono rassegnata, tra le tante forme di narrazione possibile, questa qui, la narrazione lunga consegnata alla pagina, be’, sta passando di moda. E pazienza. Non penso che questa cosa specifica – il fatto che stia tramontando la cultura letteraria come l’ho conosciuta io – indica che sta arrivando la fine del mondo.

No, nemmeno secondo me. Però è importante capire cosa sta succedendo. Si dice in giro: i libri, in quanto oggetti, non vendono. Ecco, io sono tra quelle persone. Da quando ho scoperto il piacere di leggere dall’iPad faccio fatica a comprare un libro fisico. E anche io sono uno di quelli che ne comprava cinque a settimana. E a casa manco ho più spazio, e ogni volta che prendo un libro in mano mi chiedo, «Quando ho finito di leggerlo dove lo metto?». È come comprare un CD. Non ha più senso.

No, certo, lo capisco, è logico.

Se quando avevo 18 anni ci fosse stata la PlayStation3 con giochi come The Last Of Us, e la sua suspense, francamente col cazzo che avrei passato tutto quel tempo a leggermi Baricco.

E comunque il romanzo è nato in un periodo storico definito, per andare a soddisfare un bisogno di un certo tipo di società, e forse la società è cambiata, e quella società non esiste più.

Non potevi dirlo meglio. Sono perfettamente d’accordo. A un certo punto, quel genere di cosa – mi fa schifo chiamarlo prodotto – ma quella cosa, quella forma culturale, è iniziata ad andare in declino. Non c’è molto altro da dire: ho una visione materialistica della storia. Cambiata la società, la tecnologia, la struttura delle cose, per forza di cose alcune forme letterarie si evolvono e muoiono. Per dire: non si scrivono più i sonetti, non si scrive più la lirica petrarchesca, a un certo punto è nato il “romanzo post-moderno”. E a un certo punto tramonterà e chissà cosa nascerà. Mi sembra molto sterile questa lamentazione, e un po’ conservatrice, su questa grandezza aprioristica della letteratura con la L maiuscola. E non penso che questo voglia dire che gli umani abbiano perso la capacità di esprimere loro stessi in maniera lirica, e libera.

Giusto.

Il bello della cultura letteraria è la trasmissione di idee e immagini e storie complesse. Mi sembra però che oggi forse si stia perdendo l’attitudine alla complessità, al ragionamento che va oltre l’immediato, lo slogan, la foto, la cosa divertente. Penso che forse il rischio sia che sparisca un certo modo di vedere il mondo. Se sono a rischio di estinzione i libri, forse lo sono anche, diciamo, quella complessità narrativa, quella complessità immaginifica ed espressiva, che sono state per tanti anni dentro i libri. Se la nuova forma espressiva sono le serie tv, benissimo, purché ce ne siano sempre tante simili a Breaking Bad e che non diventino tutte stupidaggini. O che i videogiochi siano sempre più come The Last Of Us e non siano Angry Birds.

Sì, certo. Però bisogna anche dire che anche nella letteratura ci sono stati alcuni romanzi bellissimi e una valangata di romanzi orrendi.

Certo. Però con i romanzi migliori ho provato una specie di senso di trionfo della fantasia umana. E forse quella cosa è limitata a quella forma espressiva? Non lo so. È difficile immaginare cosa succederà. Ci sono alcuni romanzi che mi danno quella sensazione, che mi fanno pensare, Guarda, l’uomo, che animale intelligente, pazzesco, ed è difficile che quello me lo dia un videogioco o una pagina Facebook, per quanto può succedere sempre. Purtroppo, poi, c’è il fatto che la produzione culturale ormai sta sempre più alle regole dettate da grossi gruppi industriali e distributivi, e o stai alle loro regole o parli da solo. Questa cosa non può fare altro che strozzare quel tipo di espressività umana che scardina le regole.

Qui però non parliamo più del romanzo ma parliamo di sistema editoriale. Forse c’è sempre meno spazio per la singola visione autoriale, quella visione folle, quel singolo che sceglie di fare le cose a modo suo e chissenefrega di cosa dice l’ufficio marketing. Perché comunque, anche gli editori grandi, non solo i piccoli-medi che sono più, diciamo, “liberi”, vanno malissimo. Quindi non è che seguire questi famosi dettami dell’ufficio marketing ti porti alla ricchezza.

No, figurati. Vanno malissimo, anche loro, sì.

E fanno parte di quei grossi gruppi industriali italiani che vanno male anche loro, quelli ammanicati col potere e la politica.

Sì, però quando cominceranno ad andare male i piccoli, mi immagino che i più grandi compreranno i piccoli, e a un certo punto andranno così male anche i grandi che verrano comprati anche loro da, che ne so, Random House. Ho un po’ il terrore che gli unici che sopravviveranno saranno questi grossi, grossi gruppi. E non dico grossi come gruppi italiani che perdono qualche milione. Intendo dire grossi come giganti, come Hachette. Corporation giganti che assorbono altre compagnie. Nelle realtà di quel tipo le logiche sono per forza commerciali, industriali. E forse per quel tipo di creatività e di originalità che mi piace, che mi stimola, vedo sempre meno spazio. E nelle vetrine dei megastore, e in homepage dei mega-siti, non ci andranno mai libri come la raccolta di racconti di un esordiente. Ci andrà, per dire, l’autobiografia di Ibrahimović.

Che ci sta, però. È pure divertente.

[ride] Certo. Non dico che la raccolta di racconti di Christian Raimo dovrebbe vendere più copie di Ibrahimović. Dico solo che dovrebbe, secondo me, esistere una nicchia che permetta a queste cose di sussistere. Se oggi il primo romanzo di David Foster Wallace capitasse nelle mani degli editor italiani, io sono piuttosto sicura che non verrebbe pubblicato. C’è chi dice: poco male. Io non riesco a non pensare che un po’, sarebbe male.
 

Ritratto di Karin Kellner