Attualità | Politica
Come ci siamo abituati alla Casaleggio?
Il pericolo del partito-azienda che è anche piattaforma per la "democrazia diretta" non ci ha finora scosso tanto, ma un documentario, forse, ci salverà.
Ci sono storie che non colpiscono quanto dovrebbero colpire. Per qualche ragione, il messaggio non arriva, e non si capisce bene se è perché quella storia è stata raccontata male, o se invece è il pubblico a essere assuefatto. La storia della Casaleggio e Associati è una di queste. C’è un’azienda milanese che ha creato quello che oggi è il primo partito d’Italia, azionista di maggioranza del governo Conte. Quell’azienda controlla anche la piattaforma digitale dove gli iscritti al partito si candidano e votano alle primarie, approvano i programmi, eccetera. A un certo punto, due anni fa, è stato richiesto ai candidati Cinque Stelle di sottoscrivere un contratto che dava all’allora capo dell’azienda, Gianroberto Casaleggio, il potere di decidere se il loro comportamento fosse consono o meno ai valori del partito, e nel caso multarli di 150 mila euro. Oggi un altro contratto impone ai candidati Cinque Stelle eletti in Parlamento di versare 300 euro al mese per la gestione della piattaforma digitale di cui si parla sopra. Tutto questo è, evidentemente, un problema.
Una parte di questa storia la racconta, e molto bene, un documentario appena presentato ai Dig awards di Riccione, The Choice, prodotto da unozerozerouno, che si concentra sull’opacità delle votazioni, sulle decisioni prese dall’alto e presentate come democrazia diretta, su come una società specializzata, tra le altre cose, in analisi del sentiment è nella posizione di decidere che direzione deve prendere un partito. Ma non è una storia nuova. L’hanno raccontata molto bene James Politi e Hannah Roberts sul Financial Times: «La sovrapposizione complessa delle funzioni pubbliche e private di Casaleggio sollevano questioni circa una mancanza di accountability e potenziali conflitti d’interesse dentro i Cinque Stelle. I loro critici si stanno chiedendo se sia giusto che un singolo individuo abbia un ruolo così importante senza avere una posizione ufficiale nel partito e mentre la sua azienda è così centrale per le attività dei Cinque Stelle» (l’articolo è del 2017, dunque i due giornalisti si riferivano a Davide Casaleggio, il figlio di Roberto succeduto al padre scomparso nel 2016).
La stessa storia, con un approccio e un’angolatura diversa, è stata raccontata anche da Jacopo Iacoboni nel libro L’Esperimento, uscito per Laterza quest’anno, la cui tesi principale è che il M5S sia nato da un esperimento di Casaleggio Senior. L’hanno raccontata in un altro libro, Supernova, Marco Canestrari e Nicola Biondo, rispettivamente un ex dipendente della Casaleggio e un giornalista (Canestrari è anche uno degli intervistati in The Choice, insieme a Fabio Chiusi, a David Puente, Philip Di Salvo e al “white hat hacker” Evariste Gal0is). L’ha raccontata, a più riprese, Luciano Capone del Foglio, che con il Casaleggio leak, la pubblicazione dello statuto dell’associazione Rousseau, ha dimostrato come Casaleggio jr «concentra nella sua persona tutti i ruoli dirigenziali e di vigilanza, senza alcuna divisione dei poteri, e in pieno conflitto d’interessi».
È una storia, si diceva, già raccontata ed è una storia grossa. Eppure. Eppure non ha colpito più di tanto: le denunce del Financial Times sono state accolte con poco più di un’alzata di spalle, il “Casaleggio Leak” non ha portato a conseguenze. Le domande, a questo punto, non riguardano più soltanto l’accountability del sistema Movimento-Rousseau-Casaleggio, ma lo stato dell’informazione e della politica: com’è possibile che il messaggio non sia arrivato? Forse, contrariamente a quanto non paia a me e ad altre persone nella mia bolla, non è una storia così forte. Forse invece il problema è il pubblico, che è anestetizzato, indifferente, visto che all’idea del partito-azienda ci aveva già abituato Berlusconi. Ma esiste anche una terza spiegazione: forse questa storia non era stata ancora raccontata nel modo giusto, toccando le corte giuste.
The Choice, il documentario, non aggiunge molto a quello già uscito sul Financial Times, nei libri di Canestrari e di Iacoboni (anche se la testimonianza di Evarist Gal0is è meravigliosa! E anche Philip Di Salvo è molto bravo). Però è un documentario fatto bene, godibile e appassionante (l’ho visto, in anteprima stampa, con un amico che si occupa di giornalismo televisivo e di documentari, ha detto che «si vede che è fatto in economia ma con idee buone») e, me lo auguro, la soluzione sta proprio lì. Recensendo The Choice, sempre sul Foglio, Daniele Raineri ha notato che «i giornali di carta in questi mesi si sono occupati dello stesso tema e hanno dato molti dettagli, ma se si tratta di raccontare la medesima storia con un format più efficace allora il confronto con un video è impari». Forse, davvero, è solo che questa storia l’abbiamo raccontata con il mezzo sbagliato.