Attualità

Dialogando con un genio dei dialoghi

Abbiamo incontrato Hagai Levi, lo showrunner di The Affair e In Treatment, che ci ha spiegato da dove vengono le sue ossessioni.

di Arianna Giorgia Bonazzi

Hagai Levi è l’autore israeliano di In Treatment e The Affair. Si è avvicinato al mondo del cinema da ragazzo, come proiezionista del cinema del suo kibbutz. Il suo ruolo principale, tuttavia, era quello del censore. Si occupava di rimuovere meccanicamente dalle pellicole le scene di sesso e tutto quello che avrebbe potuto risultare offensivo a un pubblico profondamente religioso. Mi risulta inevitabile pensare che questa “deformazione professionale” sia in qualche modo presente, come super-ego, nei suoi lavori. E allo stesso tempo, ma non glielo dico, mi piace immaginare The Affair, una serie piena di sesso, come la pellicola di soli baci censurati montata con la colla in Nuovo Cinema Paradiso. Questa settimana, di ritorno da Los Angeles, e di passaggio a Roma, dove ha presentato The Accursed, una nuova mini-serie sui poeti maledetti, si trova a Torino per una lezione sullo storytelling. L’ho intervistato su un auto diretta a Malpensa per il suo volo di ritorno a Tel Aviv. Prima di partire, però,mi ha chiesto di aspettare per poter guardare dai finestrini la città dove i suoi nonni ripararono dalle persecuzione naziste, stabilendovisi. Ci è stato solo due volte, ma si sente a casa, perché è un tipo terribilmente interessato al destino.

Sua nonna, in patria, è stata più famosa di lui. Era una scrittrice che adattò il Talmud per i bambini, e lui stesso è cresciuto in un ambiente ebreo ortodosso. Ieri sera la sua lezione alla Scuola Holden iniziava proprio con un tributo alla nonna, e a una storiella che soleva raccontagli: c’era il rabbino Akiva, che se ne andava in giro a diffondere la sua fede per i paeselli, e una sera arrivò in un villaggio dove non trovò alloggio. «Ah già…», si è interrotto Hagai, forse in maniera studiata, «mi sono dimenticato la parte più importante: aveva con sé una candela, un gallo e un asino. La candela per leggere il Talmud di notte, il gallo per svegliarsi alle quattro, l’asino per caricare tutto il resto». Poi si interrompe: «Raccontare storie è proprio ops, ho dimenticato quel particolare… comunque il rabbino si accampava fuori dal villaggio. Gli si spegneva la candela. Come vuole Dio, si rincuorava. Poi arrivava un cane, e gli sbranava la il gallo. Come vuole Dio, si ripeteva. Infine, un leone si mangiava l’asino. Come vuole Dio. Poco dopo, un gruppo di banditi saccheggiava e decimava il villaggio dove il rabbino avrebbe dovuto alloggiare. Grazie a Dio, la candela non lo aveva illuminato, il gallo non lo aveva cantato, e l’asino non aveva potuto segnalare la sua presenza ragliando. Dio. Il Destino». Cresciuto in un kibbutz, e allontanatosi dalla religione verso l’età di diciassette anni, Hagai è profondamente permeato dalla sua cultura d’origine, per la quale nutre un grande rispetto, e che costituisce un vero e proprio lume alla luce del quale leggere nelle sue opere.

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Arianna Bonazzi: Puoi tracciare una linea comune tra i tuoi principali lavori televisivi? Cosa hanno in comune lo psicologo di In treatment con il fedifrago di The Affair?

Hagai Levi: Il dialogo è il cuore della mia produzione, è l’istituzione in cui ho massima fiducia, il più potente strumento narrativo, assieme all’ossessione. Vedi, la religione ebraica è una religione di sole parole. Studiavamo il Talmud da bambini partendo da una frase e ragionandoci su, senza alcuna raffigurazione. Per noi era naturale così. E non sai quante difficoltà io incontri ora che sto scrivendo un film. BeTipul [titolo originale di In Treatment] è molto ebreo, è come il Talmud. Non è una coincidenza che la psicoterapia sia stata inventata in Israele. L’assunto che ho seguito nella scrittura di BeTipul è quello opposto al classico Show don’t tell. Ecco, io sono uno Tell, don’t show. Il voice-over di The Affair non è certo un caso. All’inizio, avevo ipotizzato che le due versioni degli amanti fossero i racconti che i due facevano ai loro psicologi. Non andava bene, perché l’avevo già fatto. Così, ho pensato potessero essere le versioni offerte ai loro rispettivi avvocati divorzisti. Alla fine, il destinatario dei racconti è diventato un poliziotto, perché in America quando dici: «Voglio raccontare la storia di un tradimento», ti chiedono: «Dov’è il cadavere?».

A proposito di tensione morale. Durante la tua conferenza a scuola, hai mostrato ai ragazzi le primissime bozze dello schema che tu e la co-sceneggiatrice Sarah Treem [la sceneggiatrice americana di In Treatment, con la quale Levi ha ideato The Affair durante una passeggiata per Tel Aviv] avevate preparato per The Affair. Mi ha colpito il titolo di lavoro delle stagioni, la prima era The Fall (l’innamoramento e il combatterlo), la seconda The Price (il prezzo da pagare per la nuova storia d’amore incominciata), e l’ultima The Day-after o The Punishment. La parola mi ha sorpreso. C’è un tuo giudizio morale, dunque, attorno all’atto del tradimento?

No, punizione non è la parola corretta. Chiamalo conseguenze, o karma. Nelle mie intenzioni, la terza stagione avrebbe avuto un risvolto ironico. L’idea era di sorridere della fine dei protagonisti: intrappolati in storie del tutto simili alle due relazioni che avevano abbandonato per vivere il loro amore.

È un’idea che mi piace molto. Ma ho un sospetto: quando dici che la seconda stagione è dedicata alla perdita di tutto, mi viene da pensare che tu sia simpatetico col punto di vista maschile. Infatti, Alison è sposata, ma non ha figli né carriera (ha perso un bambino in mare e fa la cameriera a Montauk), mentre Noah ha quattro figli e una moglie straricca che lo mantiene mentre cerca di diventare scrittore… Dunque è lui quello che ha veramente tutto da perdere. Non posso credere che tu sia veramente dalla sua parte.

Beh, sono un ragazzo, cosa devo dirti. Per la stesura del pilota, io e Sarah ci siamo suddivisi così: io ho scritto la versione di Noah, e lei ha scritto la parte di Alison. In seguito, ho lasciato a lei l’intera stesura, perché credo che ciascuno dovrebbe sceneggiare nella propria lingua. Io scrivo solo in ebraico; non me la sentivo di sceneggiare un’intera serie in inglese.

Ora che non sei più show-runner della serie [Levi preferisce metterla così: non è scappato, ha solo smesso di essere show-runner] sono curiosissima: continui a guardare The Affair? Che sensazione dà abbandonare la propria creatura in mani altrui? Quando tra qualche anno ti additeranno come l’inventore della serie sarai fiero, o ci terrai a precisare dirai che hai sceneggiato solo la prima stagione?

Certo che sono ancora fiero. È la mia creatura. Non smette di esserlo solo perché in questo momento sentivo l’esigenza di seguire altri progetti.

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Ma perché proprio la storia di due amanti?

Beh, la storia oggi è talmente comune che è la solita fottuta storia di due che si fanno le corna. Era il come che mi interessava. Vedi, quando sono diventato padre, avevo bisogno di soldi, e mi sono messo a scrivere telenovelas. Lì, il tradimento era il dispositivo narrativo principale, ma la natura di questo fenomeno non era mai indagata nella sua essenza e nelle sue implicazioni… È stato qui che mi sono abituato a una scrittura di tipo giornaliero e a basso budget. Mi sono chiesto che cosa mi sarebbe piaciuto fare, a queste condizioni. Puntate quotidiane e pochi soldi. E mi è venuta l’idea di In Treatment. Ogni giorno della settimana, un paziente diverso va dallo psicologo. E il venerdì è lo psicologo ad andare dallo psicologo, e noi scopriamo tutto quello che gli passa per la testa durante la settimana. L’idea del “daily”, proveniente dal mondo della soap, mi è rimasta anche per The Affair.

Ho capito bene che non “te ne sei andato” da The Affair, ma ho intuito anche che l’aggiunta di una crime-story alla trama non ti ha convinto. Io invece, da spettatrice, l’ho trovata un’interessante àncora di oggettività nel vortice di una narrazione completamente soggettiva. E anche un’esplicitazione del fatto che è tutto un discorso morale. Un po’ come in Breaking Bad.

Esatto. È la stessa cosa. L’idea era esattamente che una volta oltrepassato un limite, ne puoi oltrepassare un altro.

Però tu hai detto che di Breaking Bad terresti solo la stagione 1 e l’ultima…

Oh sì, non puoi capire, la stagione 2 di Breaking Bad mi ha spezzato il cuore, volevo piangere… Non sopporto quel modo subdolo di creare dipendenza negli spettatori, attraverso cliff-hanger a fine puntata che ti costringono a volerne ancora.

Da quel che ho capito, ci sono veramente poche serie Tv che ti piace guardare.

Ho amato Six Feet Under e Mad Men.

Onestamente non capisco perché l’aggiunta del delitto in The Affair non ti abbia convinto. Perché il modo di Mad Men di creare “addiction” nel pubblico è lecito, e quello di Breaking Bad no.

Vedi, la ragione che dovrebbe spingerti a volere di più di una storia, dovrebbe essere l’addiction per i suoi personaggi, e non per la storia. E’ esattamente come la droga, e quando guardo questo genere di roba io mi sento abusato. Con The Affair, la mia paura era solo che la storia gialla prendesse il sopravvento sul vero interesse del mio studio. Conoscere più a fondo due persone normali e “buone”, che si trovavano invischiate in una relazione non cercata, insomma, che si innamoravano.

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Hai detto di avere smesso anche di guardare House of Cards. Perché?

Perché per me ogni narrazione riguarda una tensione morale. Una crescita morale del personaggio, un andare a fondo della sua moralità. In House of Cards, questo aspetto è totalmente assente.

So che sei appena tornato da L.A. dove stai lavorando contemporaneamente a due nuove serie, però c’è qualcosa della tv americana contemporanea che vivi come  pornografia… E poi odi il fatto che ti chiedono sempre cosa metteresti in una “ipotetica quarta stagione”. Hai visto Episodes, la serie con Matt LeBlanc in cui due sceneggiatori inglesi vanno a Los Angeles per un adattamento, e il loro show viene stuprato?

Ah ah, è un bene che tu mi abbia ricordato di guardarlo. Ne avevo proprio intenzione. Sì, so di cosa parla… [ride]. Ma perché si chiama Episodes secondo te? Non saprei. Forse lo sai tu? In Inghilterra le puntate si chiamano chapters, in America episodes. L’ho imparato sulla mia pelle. Questa dev’essere la prima differenza macroscopica con cui si sono scontrati tutti gli sceneggiatori alle prese con un adattamento negli Stati Uniti.

Beh, tu hai adattato il tuo BeTipul in America e in molti Paesi europei, tra cui l’Italia. Come si fa a mantenere il controllo sulla propria opera, quando un prodotto viene adattato in tutto il mondo? Tu come hai seguito i vari adattamenti?

Beh, non li ho proprio seguiti. Però ho dovuto autorizzarli tutti. Ho detto veramente pochissimi no. Per me, l’essenziale era trovarmi di fronte a persone intellettualmente oneste e sinceramente interessate al tema di Be Tipul. Le domande che ponevo, prima di dare l’autorizzazione, erano: com’è vissuta la psicoterapia nel tuo Paese, e siete intenzionati a usare un vero terapista per scrivere la serie? E anche: come adatterete la storia del soldato?

Sei un po’ ossessionato dalla psicoterapia…

Sì. Ho studiato psicologia, oltre che cinema. Quando ho deciso di fare In Treatment, volevo superare un limite: entrare nella testa dello psicoterapeuta, vedere cosa pensa l’uomo immobile che ascolta le nostre confessioni. Inoltre, pensavo che nessun film e nessuno show avesse mai trattato la psicologia come qualcosa più di un gioco. Le sedute di psicoterapia nei Sopranos, ma anche quelle di Woody Allen, non avevano alcuna verosimiglianza rispetto a ciò che avviene nello studio di uno psicologo. Volevo vincere lo stigma, ancora presente nel mio Paese, sulla gente che va in psicoterapia.

Il soldato diventa un manager che ha licenziato un dipendente, poi suicidatosi. La colpa è il fuoco del mio interesse

Parlami della storia del soldato. Hai detto che ci sono adattamenti “pigri” e adattamenti intelligenti. Puoi farmi un esempio?

Quello che apprezzo di più, in un adattamento, non è la traduzione, ma la trasposizione: quando la storia si allontana il più possibile da quella originale, per compiere un vero e proprio adattamento culturale. Per esempio, in Ungheria, dove il liberismo spinto ha seguito il crollo del comunismo, il soldato è diventato un manager senza scrupoli responsabile di aver licenziato un dipendente, poi suicidatosi. La colpa è sempre il fuoco del mio interesse.

Quando Lost è finito, Lindelof ha dovuto chiedere scusa ai suoi spettatori delusi sui social. Tu non mi sembri uno angustiato dal problema del pubblico. Ti saresti mai aspettato che BeTipul, così low budget, camera fissa sul paziente e sullo strizzacervelli, avrebbe avuto tanto successo?

Assolutamente no. Beh, non voglio dire di essere uno scrittore naif, che non pensa all’aspetto economico del suo lavoro. Ma io BeTipul l’ho scritto pensando a un pubblico di amici. Non ho mai pensato ai numeri. E comunque si parla sempre di successo di nicchia. In tutti i Paesi dove è stato adattato In Treatment è stato mandato in onda su canali molto piccoli, con un pubblico ristretto. Lo stesso vale per The Affair [che però ha toccato lunedì, con l’episodio 6 della seconda stagione, quasi il milione di spettatori, ma di certo lui non lo sa].

Posso chiederti a che film stai lavorando?

Certo. C’è questo diario, lei si chiama Etty Hillesum, è un’ebrea olandese vissuta all’inizio degli anni Quaranta. Dovresti leggerlo, è un libro di quelli che ti cambia la vita. Itty va dallo psicologo e lui le consiglia di scrivere un diario. È un diario molto intimo, estremamente moderno per quegli anni – pieno di sesso e di storie amorose – che lei a un certo punto cerca di pubblicare tramite un amico scrittore, ma che poi rimane lettera morta fino al successo di Anna Frank negli anni Ottanta. È l’Olocausto strisciante: i nazisti che sequestrano le biciclette agli ebrei di Amsterdam. La disperazione per questa donna fuori dal comune per la sua bicicletta. È un testo narcisista, erotico e insieme spirituale e pieno di terrore. Itty avrebbe l’’occasione di fuggire prima di essere presa e internata in un campo, invece rimane, e ci va di sua volontà per stare vicino ai suoi amici. Ops. Ho dimenticato di dire che Itty, naturalmente, è innamorata del suo psicologo.

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Non si può dire che Hagai Levi non abbia una poetica riconoscibile. Dalle soap opera a qui, sempre con le ossessioni delle parole, del racconto quotidiano, della psicologia e del sesso. Quando l’auto accosta, mi sento un po’ scombussolata. Hagai è in anticipo, ma si sente in ritardo, scalpita per tornare a Tel Aviv dai figli, altro che Noah Solloway e mi tende la mano con fare improvvisamente frettoloso.