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Dave Bautista, un energumeno che vuole essere preso sul serio

Nei Guardiani della Galassia Vol.3 ha detto addio a Drax, il personaggio che lo ha reso famoso: ora vuole dimostrare di non essere solo un altro action hero ma un attore vero.

di Francesco Gerardi

Dave Bautista è un uomo che si prende molto sul serio e forse è per una questione di sopravvivenza. Prendersi sul serio deve essere l’unico modo di sopravvivere alla sorte che lo ha portato a fare due dei mestieri più ridicoli che un essere umano possa fare: il wrestler e il supereroe. Non che risultare ridicolo sia mai stato un cruccio per lui. Quando gli chiesero quale processo di selezione seguisse per scegliere il prossimo film in cui recitare, la sua risposta fu che non ne seguiva proprio nessuno. «Sono disposto a recitare letteralmente in qualsiasi film a patto che il personaggio che devo interpretare sia interessante e che le persone che lavorano con me lo siano altrettanto». La fissazione con le cose e soprattutto le persone interessanti viene dalla convinzione di essere un cliché: Bautista è nato poverissimo in un quartiere poverissimo di Washington D.C. e, lo sa, lo dice nelle interviste, lo ha pure scritto in una stupenda autobiografia (Batista Unleashed), partendo da queste premesse la sua vita non poteva che seguire quell’inevitabile narrativa americana. Il bambino salvato, il giovane uomo arrabbiato, il gran lavoratore che si costruisce il suo sogno americano pezzo dopo pezzo, l’underdog che alla fine trionfa contro ogni aspettativa e nonostante tutte le avversità. Un cliché, appunto. E Dave Bautista odia i cliché.

Probabilmente è per questo che ha deciso di essere il primo supereroe a dire la verità, nient’altro che la verità sui supereroi: hanno smesso di essere un cosa interessante ormai tanto tempo fa e adesso sono soltanto una cosa stupida. «Non sono sicuro di voler essere ricordato come Drax [il personaggio da lui interpretato nella trilogia dei Guardiani della galassia, ndr]. È un’interpretazione stupida e io voglio cimentarmi in ruoli ben più seri», ha detto, annunciando con esplicito sollievo che la sua terza volta da Guardiano della galassia sarebbe stata anche l’ultima. Apriti cielo. Ingrato, ipocrita, arrogante, gli hanno detto gli adulti che non accettano che le loro passioni vengano descritte per quello che sono: cose stupide. Noi credevamo in te e speravamo tu fossi il nuovo The Rock, gli hanno scritto tantissime persone sui social dopo quell’intervista a Gq. «Io non ho mai voluto essere il nuovo The Rock. Io voglio solo essere un bravo attore, cazzo. Un attore rispettato», ha ripetuto fino alla nausea a tutti quanti. E anche questa precisazione, ovviamente, gli costa una gran fatica perché rientra anch’essa nell’odiatissimo cliché di cui sopra. Lo ha spiegato più volte, Bautista: odia il suo desiderio, la sua necessità di legittimazione. Eppure non può evitarlo: una persona che si prende sul serio pretende di essere presa sul serio. Figurarsi una persona arrivata a Hollywood con i suoi trascorsi: criminale, culturista, wrestler professionista, il suo ring name era Batista “l’animale” e la sua mossa finale la “Batista Bomb”. Ovvio che uno così a Hollywood abbia il destino segnato: supereroe o action hero o protagonista di qualsiasi cosa Zack Snyder riesca a vendere agli studios. E all’inizio va bene, ci mancherebbe: Bautista è uno che si prende molto sul serio ma che non si sopravvaluta mai, lo sa che uno come lui, con quella faccia, con quel corpo, con quella carriera professionale e storia personale alle spalle non si può permettere di essere schizzinoso.

Quel corpo è il suo – letteralmente – più grande problema oggi, nella seconda parte della sua vita e all’inizio della sua nuova carriera da attore. Una volta lo definì un corpo che «sottintende violenza», il lascito degli anni violenti vissuti da una versione violenta di se stesso. Gli anni violenti sono quelli dell’infanzia e della gioventù: a nove anni gli era capitato già tre volte di assistere alla morte di una persona davanti all’uscio di casa sua, seguendo con crescente apatia gli sforzi di sua madre per salvare il malcapitato e i sempre provvidenziali ritardi dei salvatori (ambulanze, poliziotti). Alla terza volta, non gli venne nemmeno da piangere: quando sua madre si accorse della cosa, decise che era arrivato il momento di abbandonare quel quartiere di Washington D.C. e trasferirsi a San Francisco, nella speranza che suo figlio di nove anni si ricordasse che davanti alla morte si piange. In California vennero gli anni dei piccoli furti nelle baby gang, poi dei pestaggi nella criminalità degli adulti. I soldi erano sempre pochi e, dopo il primo matrimonio e la prima figlia, divennero pochissimi. Quel corpo che sottintendeva violenza, all’epoca, lo aiutò a sopravvivere. Ma non lo salvò: l’unica maniera per ripagare i debiti – aveva persone che compravano i vestiti, il cibo, l’acqua, a lui e alla sua famiglia – era il lavoro da buttafuori. E per farlo meglio e di più arrivò a passare tutte le ore dall’alba al tramonto in palestra e tutte quelle dal tramonto all’alba a intimorire gente fuori dai locali di mezza California. Per spiegare l’innaturale sviluppo del suo corpo in quegli anni, Bautista si è inventato «l’anoressia al contrario»: arrivò a pesare quasi 140 kili e nonostante questo si guardava allo specchio e si vedeva «gracile, minuto».

Ora, ha raccontato, i suoi sforzi sono di senso opposto. È dimagrito, è rimpicciolito, ma non può imporre al suo corpo l’ennesima trasformazione. E quindi gli tocca nasconderlo, nella speranza che chi gli sta davanti noti il resto: «Quando cammino cerco di non tenere il petto in fuori. Provo a nascondere i bicipiti. Non voglio sembrare una cazzo di action figure. Voglio “umanizzarmi” e rendermi più avvicinabile. Cosa non facile quando hai il corpo di un gorilla». E, in effetti, vai a spiegare che uno con quella faccia e quel corpo è un cuore di mamma: quando il suo idolo, il pugile Manny Pacquiao, fece i commenti omofobi che gli sono costati la reputazione, Bautista, figlio di una donna lesbica, si precipitò dal suo tatuatore di fiducia per farsi coprire i tatuaggi dedicati all’ormai ex idolo. Vallo a spiegare che uno con quella faccia e quel corpo soffre di ansia e si blocca per timidezza. «Tutto mi fa paura. Tutto mi innervosisce», ha spiegato una volta. Quando iniziò le riprese del primo Guardiani della galassia, per impegni precedenti arrivò sul set con due settimane di ritardo rispetto a tutti gli altri attori. Era terrorizzato all’idea che nessuno gli rivolgesse la parola perché tutti si conoscevano già. In più, ogni giorno doveva passare ore e ore a truccarsi e struccarsi, cosa che non faceva che aggravare i suoi stati d’ansia. Cominciò a girare per il set protetto dall’armatura che si porta dietro sin da ragazzino per affrontare e superare gli attacchi di panico: un paio di occhiali da sole e un cappellino con visiera, oggetti che lo aiutano a sentirsi «protetto». Quei primi giorni sul set lo hanno aiutato a imparare la lezione più importante della sua carriera da attore: «Costringermi a fare cose che mi mettono a disagio. Magari mi fanno sentire male, ma non mi lascerò fermare da questo malessere».

A furia di costringersi a fare cose che lo mettono a disagio, Bautista ha imparato a fare l’attore e, soprattutto, ha scoperto che attore vuole essere. Mr. Hinx della Spectre in 007, Sapper Morton in Blade Runner 2049 (Bautista ha raccontato che a Denis Villeneuve che deve tutta la sua carriera da attore: «Per quel ruolo mi ha privato di tutta la mia fisicità, si è concentrato solo sulla mia interpretazione e ha finalmente permesso al pubblico di vedermi in maniera diversa»), Glossu Rabban degli Harkonnen in Dune, Duke Cody in Glass Onion, Leonard Brocht in Bussano alla porta: ruoli diversissimi tra loro, prova riprova e controprova del fatto che dietro il corpo da gorilla c’è davvero un attore serio. Lui, Bautista, si dice contento del fatto che finalmente Hollywood stia cominciando a prenderlo sul serio. Alla fine, dice, il cinema non funziona in maniera tanto diversa dal wrestling, ha spiegato: «Si tratta soltanto di diventare sempre più grossi. Solo in un senso un poco diverso. In ogni caso, io so come si fa».