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Il problema dell’Italia con i numeri

La contrapposizione tra freddezza dei dati e persone è del tutto falsa.

di Simone Torricini

Il ministro Luigi Di Maio a Roma durante i festeggiamenti per l’insediamento del nuovo Governo (Photo by ALBERTO PIZZOLI/AFP/Getty Images)

Uno studio condotto da Ipsos nelle scorse settimane ha fatto emergere per l’Italia un primato preoccupante: dei tredici Paesi oggetto del sondaggio, operato su un campione di cinquantamila intervistati, il nostro è quello in cui le persone hanno la percezione più distorta delle cose. In Italia si sa e si capisce mediamente ben poco di quanto ci accade intorno.  È un dato che accogliamo senza troppa meraviglia ma se esiste uno strumento in grado di restituire ai cittadini la realtà, quello strumento si presenta in due forme: il documento e il dato. Il secondo in particolare è, o dovrebbe essere, il mezzo più efficace di cui le istituzioni dispongono per riassumere il proprio operato e illustrare i risultati conseguiti. In un’intervista di qualche settimana fa il ministro Di Maio si è soffermato sul tema: «La vera sfida politica oggi è tra numeri e percezione» ha esordito. «Tutti dicono: dovete spiegare ai cittadini che percepiscono quel problema che i numeri sono diversi. Io invece dico un’altra cosa. Ci dobbiamo chiedere: perché rispetto ai numeri c’è una percezione dieci volte più grande?».

All’auto-interrogativo finale di Di Maio un intervistatore non ostile chiede se non ci sia, in effetti, qualcuno che soffi sul fuoco. La spiegazione più immediata e anche la più verosimile (basti pensare alla gestione del dossier immigrazione, o alle ostilità nei confronti dell’Ue). È difficile spiegare altrimenti perché proprio in Italia, e perché proprio in questo momento storico, la tendenza alla percezione distorta dei fatti sia un elemento così diffuso. Ma il capo politico del Movimento la pensa diversamente: «Non è così. È un’altra questione», svia. E continua: «Da una parte abbiamo i problemi delle persone che sono sofferenze, quindi sono emozioni, dall’altra abbiamo i numeri che sono algidi. Se si minimizza l’emozione e la sofferenza di una persona dicendo di non preoccuparsi perché i numeri sono questi, la politica si allontana dai cittadini». Prima Di Maio sostiene di voler andare «verso i cittadini» a costo di mettere in secondo piano l’oggettività del dato, poi forza ancora di più questa posizione e sceglie tre parole significative: due sostantivi, «emozione e sofferenza», e un aggettivo, «algidi».

La riflessione di Di Maio è perfettamente in linea tanto con lo stile comunicativo del Governo quanto con il contenuto che viene in genere veicolato. Dove il nodo si aggroviglia, però, ne emerge la fragilità. Nella sostanza Di Maio crea una contrapposizione che non esiste: mette i cittadini da un lato e i numeri dall’altro, e affronta la questione come fossero due entità non solo separate, ma anche rivali. Poi conclude: «Il mio obiettivo come ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico è non parlare con il Pil o con i dati occupazionali, ma cercare di assicurare la vicinanza dello Stato rispetto a quelle sofferenze». In questo passaggio in particolare è evidente la volontà di scavalcare la legittimità del dato. Ma spicca anche un grossolano errore di fondo. Il dato è il riflesso della realtà, non un fine; ed è soprattutto neutrale, non ha colore. In un saggio pubblicato lo scorso aprile, La democrazia del narcisismo, Giovanni Orsina ha dedicato alcune righe a questo argomento: «Emozioni e istinto hanno sempre avuto […] un ruolo importante in politica». Allo stesso modo, prosegue, circoscriverne l’impatto può contribuire a rendere la vita pubblica più sensata e l’azione di governo più efficace.

Si tratta peraltro di un tema fatto proprio, pur se in modo più controverso, anche da Matteo Salvini. In una parte del video  diffuso dalla comunicazione della Lega a fine febbraio, il ministro dell’interno parlava così: «Sogno un Paese dove l’idea di futuro non si misuri sullo 0.1% di crescita del Pil, ma sul numero di bambini nati che tornino a riempire le nostre culle». Non una vera e propria presa di distanza dal dato, ma comunque un incentivo a una percezione della politica semplicizzata. Criticando l’attendibilità del Pil, per i massimi esponenti della maggioranza è così più semplice – esempio – che giustificare la diminuzione del tasso di crescita registrata negli ultimi tre mesi. A questo sono da aggiungersi i frequenti episodi in cui tanto Salvini quanto Di Maio si espongono pubblicamente in antitesi a spread, debito pubblico, deficit e simili.

La strategia parte da lontano e punta ad accentuare il divario con chi governava prima. In fondo, se oggi ricordiamo ancora più o meno tutte le cifre che Matteo Renzi elencava alla voce successi, è perché questi elenchi sono stati davvero molto frequenti. Gli 800.000 posti di lavoro, l’1.5% di Pil in più, i 500 euro del bonus cultura e gli 80 in busta paga, per ricordare i più noti. È evidente che quando i due vicepremier spostano l’attenzione su altro («emozioni e sofferenze», o «bambini nati») prendono contemporaneamente le distanze dal dato e da una comunicazione che sul dato è stata costruita. Se ne è accorto alla fine lo stesso Renzi, che nel libro pubblicato a referendum perduto scriveva: «Nell’era della post-verità ciascuno può dire quello che vuole: contestare i dati Istat, interpretare come vuole i risultati del Pil, ignorare il numero dei nuovi occupati. Vale tutto, e vince chi la spara più grossa».