Attualità

Contro l’abbigliamento tecnico

Perché si sente il bisogno di sfoggiare tessuti all'avanguardia per una passeggiata, o tenute da Tour de France per un giro in bici? Ritratto di un male estivo.

di Francesco Longo

Nulla è più corroborante della prospettiva di un bel giro da Decathlon prima di partire per le vacanze, con lo scopo di riempirsi di abbigliamento tecnico sognando grandi imprese. Anche se nulla urterà poi la vista più di un esercito di dilettanti mascherati da professionisti. L’estate è il momento per dedicarsi agli sport. Solo che ogni sport ha ormai la sua attrezzatura tecnica. Quando è stato, di preciso, che le scarpe che usavamo per camminare su un sentiero in montagna non andavano più bene per camminare a fondovalle? E perché quelle per andare a Santiago di Compostela non sono adatte per il bosco di Manziana? Perché la maglietta per giocare a calcio è vietata in canoa? E soprattutto, perché alla fine ci ritroviamo sempre con addosso giacche a vento da Himalaya per passeggiare, insaziabili, nell’ennesimo negozio di abbigliamento sportivo?

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Un gruppo di ciclisti in assetto da Tour de France, con indosso tanto di pettorina e caschetti, sfila sul bordo dell’asfalto. Sono pronti per affrontare il gran premio della montagna, anche se per centinaia di chilometri dilagano solo pianura ed erbacce. Sulle Dolomiti, la situazione non è migliore. Per una passeggiata intorno ai laghetti alpini, dalle mani pendono moltissimi bastoncini telescopici da trekking, in materiali ultraleggeri, in genere alluminio o carbonio. Comodi, se si sa come usarli. Ma la maggior parte delle volte promanano fino a valle un ticchettare molesto che fa passare per sempre la voglia di passeggiate in montagna.

D’estate, al mare, tra i monti o in città, va in scena il trionfo di tessuti traspiranti, materiali testati, accessori innovativi, dispositivi digitali, applicazioni scaricabili, diavolerie pensate per i campioni sportivi che noi usiamo in una parodia involontaria di ogni attività fisica. Per la maggior parte dei sentieri di montagna sono più adatti i jeans dei pantaloni sintetici color antracite con le zip sulla coscia. Davvero questa urgenza di materiali idrorepellenti? Servirà sul serio una tasca stagna prima o poi? Sarà indispensabile una visiera rigida per il massimo della protezione al viso? Nel migliore dei casi l’abbigliamento tecnico è antiestetico: scarpe da trekking rosa coi lacci verdi, pantaloni elastici alla vita, magliette aderenti, tutine elasticizzate, felpe con la tasca canguro, il risultato è un look pallido o talmente fosforescente da risultare sgargiante. Più brutti di così non siamo mai stati. Non si riducono così neanche i turisti alla Fontana di Trevi. Sarà che di recente, ogni gita si è trasformata in un trekking. Non c’è più nessuno che corre, pedala o arrampica, si allenano tutti. Non si gioca a tennis, ci si allena. Non si pratica la boxe, ci si allena. Non si fa jogging, ci si allena. Non si va in palestra, ci si allena. Non si va in piscina, ci si allena. Ma ci si allena per che cosa? A giudicare dai cardiofrequenzimetri infilati ovunque, siamo un esercito in partenza per l’oro alle prossime Olimpiadi.

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L’unico modo per condurre una vita mitica è impossessarsene in modo simbolico, caricarsi dei segni che identificano i grandi sportivi, vestire i panni degli eroi che compiono imprese storiche: uomini e donne capaci di traversate epiche, di volare tra le nuvole, di cavalcare onde giganti, di stracciare record correndo nel deserto. Possedere attrezzi e marchi pensati per loro – per avventure leggendarie – illude di partecipare a missioni estreme che non affronteremo mai. Infilare un guanto da bicicletta polivalente placa il desiderio di evadere da una vita angusta. Tornare a casa con un sacco a pelo a mummia con cappuccio anatomico, gambali di decompressione o zaini per idratazione da trail vuol dire affidarsi a oggetti che rompono la separazione tra dilettante e professionista, tra ciclista della domenica e velocista, tra chi arrampica nelle palestre riscaldate e Reinhold Messner. Forse un polsino di spugna ci redimerà.

Come è cominciato tutto ciò? Quando l’attività motoria ci ha fatto sentire veri atleti? Prima della mentalità, è stato il fisico a ubriacarsi, fidandosi del fatto che mandare giù un Gatorade a bordo campo, dopo un’oretta palleggi a tennis, era come combattere nel campo di Wimbledon. Potrebbero essere stati litri di quella bevanda prodigiosa a farci entrare nel sangue l’idea che tra campioni e segacce non ci fosse differenza. Da lì in poi è andato avanti un infinito banchetto a base di barrette proteiche, compresse al magnesio, capsule multivitaminiche, da inghiottire con integratori al limone, bibitoni per l’aumento della massa magra con cui brindare ai risultati delle performance in allenamento. Oggi prima ancora del sudore e del sacrificio, sono le maglie termiche a costruire la nostra identità. L’imperativo è migliorare la respirazione, aiutare la traspirazione, guai a sciare senza maglie termiche, ne va dello spirito della vacanza. Ma se lo scopo di ogni novità sul mercato sembra il “minore affaticamento” non potevamo restare sul divano di casa con un bell’accappatoio traspirante? Sembriamo persi, disorientati sul palcoscenico di questa carnevalata estiva, ma un’applicazione ci dirà sempre quante calorie stiamo bruciando e soprattutto dove stiamo andando. Così di corsa.