Attualità
Come siamo arrivati a De Magistris
Dalla stagione delle grandi fratture a quella dei sindaci guasconi, perché nella protesta odierna del Sud non c'è nessuna vera identità rivendicata.
Ci sono due storie al Sud che vanno tenute distinte, il continente e la Sicilia, e nel continente ci sono due città che da qualche tempo se ne contendono, se non l’egemonia la rappresentanza simbolica: Napoli e Bari. Una vecchia capitale da molti anni in disarmo, l’una; una città mercantile, ambiziosa e arrembante, l’altra, luogo dove si sono intrecciate in questi anni storie di amori e tradimenti, di nuovi diritti e di antichi mercimoni. Da Vendola ad Emiliano, in particolare, l’ambizione pugliese di incarnare un nuovo Sud è stata esplicita, ha avuto i suoi mitopoieti, la sua letteratura e la sua musica e da ultimo, con il referendum sulle trivelle, anche un qualche disegno politico di opposizione nazionale.
A guardarlo con un certo distacco, tuttavia, il Mezzogiorno d’Italia si presenta oggi come un paesaggio di macerie ideologiche. L’idea dei primi anni Novanta di affidare ai sindaci la risposta alla crisi di legittimità della classe politica nazionale aveva trovato a Napoli, come è noto, un «laboratorio» di un certo rilievo: la periferia che si candidava al centro, la repubblica delle città. Ora, sarebbe sbagliato pensare che la fine ingloriosa di quella stagione sia stata unicamente il prodotto dell’inadeguatezza delle élite locali. Era il progetto in sé a poggiare su basi ambigue, ignare dei dati più elementari della storia italiana. Quella stagione pure rifletteva un’epoca del Mezzogiorno che si sarebbe definitivamente consumata proprio negli anni dei governi cittadini della sinistra. Napoli, in particolare, portò Bassolino a palazzo San Giacomo sullo sfondo di un conflitto politico-ideologico che ancora poteva richiamarsi alle grandi forze storiche della città novecentesca. Seppure all’allora giovane dirigente della sinistra comunista ingraiana toccò l’amaro destino di arrivare al governo della città nel contesto simbolico della chiusura della fabbrica per antonomasia – l’Italsider di Bagnoli che aveva incarnato il sogno novecentesco della città finalmente moderna e industriale – la grande frattura tra plebe e proletariato, tra la cintura operaia e il fondo popolare dei quartieri del centro storico, restava ancora un fattore strutturante dello spazio pubblico napoletano. Da ovest a est, da Bagnoli a Barra, Ponticelli, San Giovanni a Teduccio, il voto operaio si espresse compatto contro il voto plebeo e piccolo borghese che sosteneva la Mussolini. Ma quello fu appunto l’ultimo atto di una grande vicenda storica della città. A Bassolino è toccato esserne il liquidatore e ne è stato inevitabilmente travolto. Pur non essendo più il sindaco della sua città sarebbe stato lui, e inevitabilmente, sul banco degli imputati durante la crisi dei rifiuti. Napoli non solo naufragava sotto il peso e nei liquami dell’immondizia ma veniva anche cinta d’assedio da una periferia cresciuta a dismisura e fuori controllo tra anni Ottanta e Novanta e che da allora, cancellando ogni memoria delle speranze moderne di Napoli, ne sarebbe diventato il marchio indelebile. Era l’inizio dell’età di Gomorra.
Da allora è cominciato anche il gioco a smarcarsi dalla vecchia capitale del Sud. Aggirare Napoli è stato lo schema politico della altre grandi città meridionali, Bari in testa. La quale poteva vantare un campione moderno della sinistra, solo per rapporti molto labili riconducibile al tronco principale della possente vicenda comunista. Vendola infatti è stato per un periodo che ha coinciso con il nuovo secolo il rappresentante di una nuova sensibilità, più radicale che comunista, tutta orientata verso temi tipicamente anni Ottanta, l’ambientalismo, i valori post materialisti, fino ai nuovi diritti e alle ipotesi di sinistre arcobaleno e poi arancioni (ma a Milano ci avrebbe pensato Pisapia a smentire l’entusiasmo egemonizzante di Vendola dopo la sua elezione a Palazzo Marino e così il comunismo pugliese non sbarcò mai nel capoluogo lombardo e il suo rappresentante restò quello che era: un politico locale).
Con Vendola si è costituita una corte di giovani scrittori, di intellettuali di nuovo tipo, raccolti intorno alla proposta di un patriottismo meridionale gentile, di ritorno a casa. Un appello ai giovani che studiavano fuori, tra Roma (alla Luiss, in particolare), a Bologna e a Milano, alla Bocconi, perché facessero ritorno in patria. Una proposta che dietro una ideologia da New Deal regionale si nutriva di una più concreta offerta di prebende strappate ai mille rivoli del denaro pubblico: estati in città, festival, concerti, reading, teatro, i mille modi di farsi una clientela di chi ha leggiucchiato Gramsci.
Vendola sarebbe poi andato a sbattere contro il più duro degli scogli per un ex comunista, la lotta di classe in quella Taranto dell’Ilva e delle acciaierie, ancora una volta l’Italsider, in cui era racchiusa la grande illusione di trasformazione del Sud nutrita dalla classe dirigente nazionale di inizio Novecento. Dopo sono venuti sindaci arrembanti, guasconi, ormai completamente svincolati da debiti e legami ideologici novecenteschi. Due giudici, a Napoli e a Bari, molto diversi tra loro ma pur sempre due giudici, in nome di quella condizione del Sud come regime di occupazione morale permanente che è la forma compiuta di ogni destituzione della politica e dei suoi attori.
Da Bari Emiliano vuole ancora arrivare a Roma. A Napoli De Magistris non si fa illusioni e proietta la sua figura su uno scenario più vasto e più vago. Forte della vocazione universalista della città, del suo essere appunto città-mondo, De Magistris sogna di farne una sorta di Porto Alegre del Mediterraneo. In questo va notata la mutazione della piattaforma ideologica della sua candidatura. Dopo la stagione bassoliniano-iervoliniana e dopo il fallimento delle primarie del Pd, De Magistris arrivò a Palazzo San Giacomo sulla spinta di una maggioranza elettorale composita, molto grillina con un certo anticipo, “né destra né sinistra”, un voto borghese e popolare, qualunquista e semplicemente esausto. Oggi è diventato un sindaco rosso. Cinque anni fa era berlingueriano come lo era Casaleggio, oggi è decisamente altermondialista.
Cosa si perde in queste avventure picaresche di personaggi alla disperata ricerca di un’impresa? Il meglio: la possibilità di dare ai meridionali sistemi urbani funzionanti. Ma questo è oggi ed è sempre stato il destino del Sud. E tuttavia si resterebbe al di qua di una comprensione adeguata del Mezzogiorno continentale se non si cogliesse dietro questa nuova rappresentanza urbana il nucleo reale della protesta meridionale. Una protesta che non ha mai veramente abbandonato il Sud, fatta di recriminazioni, di ripiegamento localistico, di umori antiunitari. Ma bisogna anche considerare che quella retorica di qualche anno fa, del sangue del Sud, dei terroni, ha decisamente perso mordente. Il leghismo meridionale è rifluito nei canali di scolo di Internet, perché in questi anni ha avuto modo di venire fuori il nucleo effettivo del conflitto, che è squisitamente redistributivo. Non c’è nessuna identità da rivendicare, nessun dialetto, nessun glorioso passato. Piuttosto si tratta di ridiscutere i termini del patto nazionale e per questo ci vuole la politica, una politica appunto nazionale. Il problema del Sud è che questa nuova politica ancora non si delinea all’orizzonte.