Attualità

Chi sei davvero, Vinicio Capossela?

Capire chi è Capossela, ormai 50enne, dietro le maschere rubate agli altri (Waits, soprattutto). A partire dal suo ultimo libro, candidato al Premio Strega.

di Marco Rossari

A inizio secolo un pianoforte si aggirava per Milano.

Rimpallato da un bar all’altro, di Arci in Arci, vagava perché il proprietario non aveva posto per ospitarlo e quindi lo dava in comodato d’uso al locale di turno, dove ogni tanto sul tardi la voce del padrone faceva capolino con una confraternita del Chianti insieme a cui strimpellare fino a tarda notte, per la gioia dei vicini e di un pugno di aficionados disposti a fare le ore piccole dietro a un ego squassante come una fanfara e all’idea del concertino per pochi intimi. «Quello arriva», mi disse un barista che non lo aveva in particolare simpatia, «e si mette lì a bere». Non mi sembrava un’abitudine così grave, ma nemmeno la sua invidia lo era. «Quello» era Vinicio Capossela, vagabondo notturno appresso al suo strumento, nella migliore delle tradizioni scapigliate. Allora non mi dispiaceva questa sua immagine itinerante, fatta di comparsate a sorpresa, cui non doveva essere aliena la possibilità di qualche drink a scrocco o magari un rimorchio. Era nella fase migliore, dopo Canzoni a manovella, appena prima che cominciassero i dischi di maniera, e già allora la sua immagine sollevava parecchi dubbi.

«È fasullo». «Almeno Paolo Conte era meno sbracato». «È una versione povera di Tom Waits». (d’ora in avanti quest’ultimo definito [omissis], in omaggio ai patetici inviti a non nominarlo, perché il nostro non gradiva, cioè gradiva troppo, a tal punto che, per emanciparsi meglio, s’era preso il grande Marc Ribot alla chitarra, dal tocco inconfondibile). In realtà il suo personaggio, tanto quanto quello di Lana Del Rey, è sempre stato una costruzione narrativa, una sorta di autofiction. Credere a una storia falsa fino a farla diventare vera. Il piano bar, la voce strascicata (che dal rauco forzato degli esordi, parodia della parodia dei due piano-men succitati, ha trovato una cadenza prima dolce e poi sempre più flebile: oggi parla, sussurra, al massimo per riemergere gli tocca tenoreggiare), l’alcol come destino, l’estasi novecentesca del maudit (o del Modì, a cui ha dedicato una canzone strappalacrime e forse strappamutande), i tanti prestiti dichiarati e non: in Decervellamento fa Jarry, in Camera a sud fa Toquinho, in Bardamù [sic] fa Céline, con la Kočani Orkestar fa Bregović, in Ultimo amore fa il mariachi, in Notte newyorchese fa Buscaglione, in Tanco del Murazzo fa – aridagli – [omissis], nell’Accolita dei rancorosi fa John Fante (Accaniti nell’accolita era anche il titolo di uno spettacolo di letture tratte dall’autore di origine abruzzese), poi la retorica del “barrio” mutuata da Aníbal Troilo, Stanco e perduto presa in prestito da I Was Young When I Left Home di Bob Dylan (dal paperback Newton 1972 con i testi tradotti in italiano: «Proprio l’altro giorno / mentre ritornavo con la paga / incontrai un vecchio amico di un tempo / mi disse tua madre è morta e già seppellita / le tue sorelle sono ormai perdute / e tua padre ha bisogno di te subito a casa», che è in pratica la terza strofa della canzone, ma non sto moralizzando da grillino: Dylan sarebbe molto orgoglioso di questi furtarelli), insomma un indossatore di stili e suggestioni che alla lunga ha creato un ircocervo metà cantautore e metà teatrante, pianobar partito per l’Oriente che ha bisogno di continui input per non soccombere. Questa vocazione all’imitazione – questo essere uno Zelig che di originale ha il trasformismo e non sa più chi è – l’ha reso fruibile, riconoscibile come un fratello mai visto di cui però si riconoscono i tratti del viso.

Ora, fermi: se c’è un mito sopravvalutato è quello dell’originalità. Dylan rubava, gli Stones rubavano e se credete che [omissis] fosse puro, vi presento Captain Beefheart. Non è questo il punto. Raccontava Rickie Lee Jones riguardo ai primi anni del sodalizio amoroso con [omissis], che lui voleva proprio ricreare una famigliola messicana con la macchina carica di bambini che gridano. Capossela ha seguito ancora una volta quel modello: diventare quella cosa fino a inventare un character. Dai e dai ha trascinato tutti nel gorgo del suo personaggio, a volte buffo e a volte ridicolo, in concerti dove trasforma la sala in una taverna greca, come se volesse far vivere tutti dentro il sogno di essere qualcos’altro: un personaggio di Kusturica o un barfly in qualche bettola losangelina o anche solo una ciotola di tzatziki, tutto ma non il ragazzetto emiliano che sogna di suonare il pianoforte come i grandi. Ha dato forma a un sogno, a un’epica di rimessa, che proprio nella sua cialtroneria nutre un’identificazione, fino a replicare la sua copia in mille piccole riproduzioni scontate che si intravedono ai suoi concerti, dove i cappelli superano il numero degli spettatori. Capossela supplisce da tempo al bisogno di lirismo sbracato del piccolo mondo antico in cui viviamo: una giacchetta con le toppe, una barbetta rada, due Stout di troppo (io a vent’anni, in pratica) ed eccoci in un universo pseudopoetico di cui lui si farà carico: ci sarà sempre una nuova invenzione lunaticodecadente inventata dal geniale Vinicio (sempre geniale, sempre per nome, come la Nanda o Jimi) per consolarci dei piccoli rancori irrazionali dei nostri cosmi personali. D’altra parte è il ruolo del circo, che lui corteggia da sempre: la mascherata, il “mondo di luna”, Fellini, Les enfants du paradis, la tristezza allegra, le pagine in Non si muore tutte le mattine sui sollevatori bulgari e via dicendo.

Certo, credere all’epica non è facile: significa esporsi. E Capossela è uno che non ha mai sfiorato il ridicolo: ci si è buttato a capofitto, a piedi pari, raccogliendo le ginocchia a bomba per sollevare più spruzzi possibili. A volte, come un pagliacco, ne è uscito con le ossa rotte e altre, riemergendo dall’altra parte del grottesco, ha deliziato il pubblico. Dopo il giro del secolo, quando lo ricordo nottetempo per bar, ha abbandonato il produttore storico, Renzo Fantini (scomparso di recente), partorendo dischi ancora di successo ma con un suono sempre meno definito. Farà anche epica issare un Seiler a coda del 1920 a ottanta metri a picco sul mare, però poi uno il disco se l’ascolta e non trova il suono sporco di Exile on Main Street o il miracolo delle Trinity Sessions, ma delle canzoni registrate così così. Poi ha scoperto le pietre, o meglio le Scritture. Dalla provincia molle e dagli sterrati underground, dalla deriva sudamericana e dall’epica dell’aerostato, è passato alla Bibbia filtrata da Ceronetti. Quindi il naufragio dei profeti e delle balene, un disco spaventoso che si inabissa ad ogni ascolto con legata ai piedi l’opera omnia di Conrad, Melville, Stevenson. E poi la scoperta goffa della politica (per cui in Marajà l’«uomo nero» è diventato «azzurro» nell’ultima fase del berlusconismo), l’impegno contro le discariche, l’infelice canzone sull’Iraq, le comparsate al concertone del Primo Maggio insieme a Matteo Salvatore, i dialoghi con Don Gallo, la scoperta della crisi greca (come «opportunità», yawn, dall’ideogramma cinese con cui apre il suo taccuino al riguardo pubblicato dal Saggiatore), i viaggi filmati negli Stati Uniti e in Grecia dove lui passeggia prendendo appunti nel Lower East Side o a Salonicco (non è tanto mettersi in posa a essere grave, quello dovrebbe essere il suo pane, ma è fingere di non essersi messi in posa), le citazioni trite dall’eterno Pasolini contro i consumi (fatte nel megastore di una catena di librerie, vabbè), ma anche, va detto, il concertone natalizio gratuito per i barboni della Stazione Centrale con vin brulé e “Campanel” al posto di “Jingle Bells”.

Tra le tante identità, non manca quella di scrittore. Forse per esigere un pegno, viste le tante copie di Viaggio al termine della notte e Lord Jim che ha fatto vendere, Capossela corteggia l’editoria. Non è il solo. Francesco De Gregori, un po’ come Massimo D’Alema riguardo alla fede, è l’unico cantante che non ha ancora visto la luce. Se l’esordio di Capossela era segnato dalla frammentarietà (venduta come “romanzo scomponibile”), ribadita poi in un libro a quattro mani e in un taccuino sul viaggio in Grecia, qui prova a lanciarsi in un romanzo vero e proprio, in uscita in questi giorni e candidato allo Strega: Il paese dei Coppoloni (Feltrinelli, pp. 358). Un romanzone, anzi: un ritorno fiabesco ed espressionista al sud arcaico dove Capossela ha le origini (il padre è di Calitri, poi emigrato a Hannover, dove è nato il nostro).

Non è una novità. La narrativa italiana è ormai incalzata, perseguitata, divorata dal dialetto. Camilleri, Niffoi, Andrej Longo (Lu campu de li girasoli), per non parlare delle tante ianare&mennulare: da anni gli scrittori italiani, chi in buona fede e chi meno, corrono dietro a un maccheronico orecchiabile, speziato dal dialetto, che dovrebbe restituire originalità, magia, leggenda, perse evidentemente nelle nostre crudeli circonvallazioni. E così, anche qui, fin dalle prime pagine – elenco pescando qui e là – «mammoccio», «bestio», «mulo ciccigno», «sponzati», «strazzaguanti», «scorciaciucci», «viccifatui», «mancinagli» e via andare per trecento e rotte pagine. Può sembrare strano che a farlo sia un cantante (che so, è difficile immaginare Sergio Caputo scrivere frasi come: «Percorreva le strade che lo spirito scava, tra le romite terre del lupo», p. 150), ma è una vena che ha sempre irrorato i testi di Capossela e di sicuro gode di grande salute nella nostra narrativa contemporanea.

Si dirà che è un libro coraggioso, ma è anche la libertà che si può permettere un cantante di successo – e di talento, certo – in ambito editoriale (“Vinicio s’è messo in testa di scrivere Cent’anni di solitudine ambientato a Calitri…” “Chiama un pool di correttori di bozze, anzi le teste di cuoio”). Comunque non un libro fuori dal tempo, come si propone, ma ben assestato dentro lo Zeitgeist, dove si racconta il ritorno del nostro protagonista, mai nominato, ai luoghi della sua infanzia, tra vallate buie, scenari mitici, bozzetti sghembi, aforismi strampalati, saggezza di paese, arcane apparizioni, tempo immobile, la caccia al santo graal dei “Siensi”, bestiari assortiti, paesi abbandonati e scene da vecchio West, fino alla levitazione finale di tono ariostesco. Non c’è trama, anzi uno smarrimento progressivo del personaggio e del lettore, al quale dopo un po’ sembra di leggere sempre la stessa pagina. Echi di Francesco Jovine (Le terre del Sacramento), di Cavazzoni, di un Meneghello sbilenco, di Verga (c’è addirittura un certo “Rosso Malopelo”) si rincorrono in una prosa ridondante, enfatica, verbosa.

Nel libro convergono poi, in un meccanismo binario interessante, strofe intere di altre canzoni, qui annegate dentro la selva di parole. I Coppoloni apparivano già nel booklet di Liveinvolvo, insieme all’Occhino e ad altro. Il prologo con Scatozza veniva raccontato in concerto già una ventina d’anni fa. La “Contrada Chiavicone” dà il titolo a una delle sue canzoni più riuscite. C’è quasi per intero il testo di Al veglione. La Cupa è la sua etichetta e le Canzoni della Cupa uno dei suoi tanti progetti, che forse chissà nel rimbalzo tra pagina a spartito vedrà la luce a ridosso del libro. Paesi abbandonati dopo il terremoto, inseguimenti dietro “la verità dell’immaginazione” per non cedere alla “menzogna della realtà”, insomma un mondo dimenticato, un po’ Macondo mai esistita e un po’ terra del rimorso (che poi è quella del ricordo, com’è evidente), che ha raccontato anche il paesologo Franco Arminio, ma rielaborato sotto la lente stravolta della passione sentimentale (sempre un po’ ricattatoria, in Capossela) e di uno stile incerto. E se alcune cose buone ci sono (i fuochi fatui spoetizzati come «loffe della terra», i personaggi che «a furia di ascoltare [le disgrazie] degli altri, si scordavano delle loro», l’elegia dei «poveracci messi nelle tradotte, con le scarpe che puzzavano di grasso di pecora, in quei bus con la scaletta per caricare sul tetto… che partivano, ammassati sui treni, e se li portavano a sperdere per tutto il Polo Nord»), e in alcuni passaggi riesce a essere divertente e perfino evocativo, il risultato finale è uno gnommero indigesto, a cui manca l’orecchio e la grazia del suo fratello maggiore, quelle Cròniche epafàniche con le quali Francesco Guccini – non a caso scopritore di Capossela – esordì come scrittore, riaprendo un discorso intorno alla nativa Pavana, dove è poi tornato a vivere.

Resta il suo innocente tentativo di emanciparsi dal passato («Noialtri giovani di provincia emiliana cerchiam di bruciar con un po’ di grandeur» cantava venticinque anni fa) e poi di tornarci a cavallo di un sogno, a costo di restarci imprigionato, con le sue vanità e i suoi talenti. «La vita non fa sognare abbastanza da diventare visionari« scrive. Anche qui, dunque, per nulla originale: torniamo al Romanticismo. L’astuzia involontaria di Capossela è stata sempre quella di proporsi come diverso nell’uguale, singolare nella copia, unico nella miriade. Di belle cose ne ha fatte tante, ad esempio il notturno provinciale di Tornando a casa, l’abisso de Le case, la preghiera tossica di Ovunque proteggi, la straordinaria cover di Bolle di sapone di Endrigo con Pascal Comelade, lo sketch a volo d’uccello su Milano di Pioggia di novembre (forse il suo capolavoro) e altro ancora, contando anche lo Sponz Festival, che rianima da qualche tempo i paesaggi protagonisti del Paese dei coppoloni. E dunque cosa c’è di vero in Capossela? Proprio il falso. Crederci per davvero a quella finzione. In una di quelle sere lontane, di ritorno sul tardi, allertato da un’amica barista, riuscii a passare da un locale non lontano da casa dove stava suonando per una decina di persone, in gran parte suoi amici, verso le tre-quattro di notte, con le porte del locale chiuse, quatti quatti come in uno speakeasy. Aveva fatto una bella versione di Camminante e per un attimo ero stato di nuovo lì – “Capossela ci crede” – poi mi ero voltato e avevo visto la corte dei miracoli che si era portato dietro, sparpagliata qui e là nel locale. Dormivano tutti.

 

Nell’immagine in evidenza, Capossela durante il 66° Festival di Locarno, nell’agosto 2013. Vittorio Zunino Celotto/Getty Images