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14:57 martedì 30 dicembre 2026
Diverse celebrity hanno cancellato i loro tributi a Brigitte Bardot dopo aver scoperto che era di estrema destra Chapell Roan e altre star hanno omaggiato Bardot sui social per poi ritirare tutto una volta scoperte le sue idee su immigrazione, omosessuali e femminismo.
È morta la donna che restaurò così male un dipinto di Cristo da renderlo prima un meme, poi un’attrazione turistica Nel 2012, l'allora 81enne Cecilia Giménez trasformò l’"Ecce Homo" di Borja in Potato Jesus, diventando una delle più amate meme star di sempre.
C’è un’associazione simile agli Alcolisti Anonimi che aiuta le persone dipendenti dall’AI Si chiama Spiral Support Group, è formato da ex "tossicodipendenti" dall'AI e aiuta chi cerca di interrompere il rapporto morboso con i chatbot.
I massoni hanno fatto causa alla polizia inglese per una regola che impone ai poliziotti di rivelare se sono massoni Il nuovo regolamento impone agli agenti di rivelare legami con organizzazioni gerarchiche, in nome della trasparenza e dell’imparzialità.
Il primo grande tour annunciato per il 2026 è quello di Peppa Pig, al quale parteciperà pure Baby Shark La maialina animata sarà in tour in Nord America con uno show musicale che celebra anche i dieci anni di Baby Shark.
Bolsonaro è stato ricoverato d’urgenza per un singhiozzo che andava avanti ininterrottamente da 9 mesi Il singhiozzo cronico dell'ex Presidente si è aggravato durante la detenzione in carcere, rendendo necessario il ricovero e anche la chirurgia.
Il thread Reddit in memoria di Brigitte Bardot è stato chiuso subito perché quasi tutti i commenti erano pesanti insulti all’attrice Accusata di essere una lepenista, islamofoba, razzista, omofoba e classista, tanto che i moderatori hanno deciso di bloccare i commenti.
Migliaia di spie nordcoreane hanno tentato di farsi assumere da Amazon usando falsi profili LinkedIn 1800 candidature molto sospette che Amazon ha respinto. L'obiettivo era farsi pagare da un'azienda americana per finanziare il regime nordcoreano.

Chi protegge il testimonial

Promozione dal basso e ricerca di testimonial d'effetto: il caso di Under Armour

05 Giugno 2012

Oggi parliamo di pubblicità.

Anche qui, come in altri settori e discipline, si guarda avanti cercando di migliorare e innovare, con la speranza che certe lezioni siano state imparate, che ci sia da parte degli addetti dei lavori una maggiore consapevolezza del mezzo e un minimo di rispetto verso l’intelligenza delle persone, poi accendi la tele e vedi lo spot del Mulino Bianco con testimonial Antonio Banderas nella parte del mugnaio.

Non vorrei qui ribadire l’inutilità e la ridicolezza del commercial Barilla o il tradimento verso l’immaginario femminile (ci ha già pensato Selvaggia Lucarelli alcune settimane fa) e nemmeno ripetere la cronistoria dell’uso del testimonial. E nemmeno spiegare come anche quelli presi dal basso della rete, con il loro carico di credibilità, vicinanza e condivisione, rischino di ricadere nel solito cliché: un nome su tutti Chiara “The Blonde Salad” Ferragni (ne parlo nella seconda parte di questa puntata scritta per il programma Lorem Ipsum di Deejay Tv).

Anzi.

Voglio invece raccontarvi come l’utilizzo virtuoso del testimonial celebre sia possibile. Innanzitutto, va detto che fare leva sulle celebrità paga, specialmente in ambito sportivo. Sono i dati a dimostrarlo: in uno studio del 2011 intitolato The Economic Value of Celebrity Endorsements dopo aver analizzato 178 atleti e 95 aziende statunitensi, due ricercatori di Harvard sono giunti alla conclusione che i testimonial aumentano le vendite in media di 10 milioni di dollari l’anno e accrescono il return on equity nel breve periodo.

Ma la storia che voglio raccontarvi riguarda un brand non famosissimo in Italia, ma che nell’ultimo decennio negli Usa ha avuto un successo clamoroso. Sto parlando di Under Armour, marchio che realizza abbigliamento tecnico sportivo, principalmente per football americano, ma oggi anche per basket, golf, e in generale per le attività outdoor; peraltro non è neppure una storia recentissima ma, considerato il rapido successo, possiamo definirla paradigmatica. L’amministratore delegato e ideatore Kevin Plank ha recentemente raccontato la propria storia sull’Harvard Business Review.

Provo qui a riassumerla.

E’ il 1996 e Plank è appena uscito dal college, gioca a football ma detesta le magliette indossate sotto le imbottiture perché si inzuppano di sudore; è alla ricerca di un tessuto che lasci passare l’umidità rimanendo leggero. Lo trova, così chiama un sarto che lo trasformi in maglietta e inizia a confezionare i primi prototipi. Rintraccia i suoi ex compagni del St. John’s College di Washington, che hanno iniziato la carriera da professionisti nel mondo del football, e offre loro di provare queste magliette, non come un molesto cugino di terzo grado a caccia di un prestito di 500 $ con frasi tipo “fammi un favore, prova questa maglia” ma “ehi, lavoro in questa azienda che fa prodotti interessanti, dovresti provarli. Ti do due maglie: se ti piacciono. una la indossi e l’altra la dai al tuo compagno di spogliatoio”.

Promozione dal basso.

La cosa funziona, le maglie piacciono e danno ottimi risultati nelle competizioni: i campioni gratuiti forniti agli amici li ripaga con le maglie vendute alle squadre. Gli atleti ne parlano, senza ricevere alcun compenso in denaro. La voce si sparge in fretta e un giorno gli telefona il tipo che compra le attrezzature per i Miami Dolphin e chiede a Plank di regalargli 150 maglie, garantendo che la domenica successiva tutti i Dolphin le avrebbero indossate. Plank si rifiuta, dice che le altre squadrano le maglie le pagano e non sarebbe stato per lui sostenibile regalarle, così l’altro riattacca. Il giorno dopo, mentre Plank sta battendo la testa contro il muro per aver rifiutato la fornitura, il tipo richiama e accetta con un pagamento a 60 giorni.

Il marchio Under Armour inizia a girare sui campi e nel 2000 Plank decide di iniziare a vendere le maglie nei negozi. Ora però c’era bisogno di una campagna pubblicitaria: tra gli 800 giocatori della Nfl ce ne sono solo una decina che la maggior parte delle persone riconosce anche senza casco, e ovviamente quelli erano economicamente irraggiungibili. Così decide di scegliere Eric Ogbobu, suo ex-compagno alla Maryland che aveva giocato con i Jets e i Cowboys, un atleta da un milione di dollari ma che non aveva certo un volto noto. Il claim dello spot “We must protect this house” è quello giusto, si trasforma in tormentone e Ogbubu diventa celebre per essere il testimonial di Under Armour.

Il business cresce, si espande anche su altre categorie di prodotto, come scarpe e altri accessori, e inizia ad aver senso pagare i testimonial che promuovono il marchio. Ma la cosa interessante qui è che il rapporto tra il brand e l’atleta è una sorta di partnership strategica: i testimonial parlano dei prodotti che contribuiscono a migliorare la loro prestazione, e diventano non solo ambassador del brand, ma anche collaboratori interni, confrontandosi con i designer e i tecnici per migliorare i prodotti.

Oggi i testimonial di Under Armour sono Tom Brady, quarterback dei Patriots, miglior giocatore del Superbowl, Cam Newton prima scelta assoluta Nfl e Brandon Jennings, playmaker dei Milwaukee Bucks. Oggi – dice Kevin Plank – gli stessi atleti hanno fatto della propria identità un brand da costruire, e quindi cercano di fare endorsement per aziende che riflettano il loro stile di vita e i loro valori. La grande forza di Under Armour, in realtà, è che è l’azienda stessa a gestire i rapporti con gli atleti e tutta la comunicazione: proprio in questo modo riesce a risultare credibile agli occhi delle persone. E oggi sono sempre più rari i brand che riescono ancora ad esserlo.

Le agenzie pubblicitarie, dal canto loro, cercano di mantenere il proprio ruolo sul mercato, e da qualche anno provano a coinvolgere i testimonial in operazioni chiamate Experential, tipo questa , dove il testimonial viene calato in contesti quotidiani.

Credibili?

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