Cultura | Personaggi
Cesare Cremonini è mio padre
Nei 25 anni che separano ...Squérez? dei Lunapop da Alaska Baby, il suo nuovo album da solista, Cremonini è riuscito in un'impresa che quasi tutte le popstar italiane falliscono: invecchiare bene, guadagnandone anche in coolness.
Cesare Cremonini è mio padre. Non letteralmente, s’intende, ma secondo i parametri di valutazione Gen Z della coolness, o dello swag, come avremmo detto pochi anni fa, Cremonini è mio padre. Si dice quando un personaggio popolare viene percepito come figo, a prescindere dall’età o dalle ragioni per cui è famoso: anche Fabio Caressa che si rolla una sigaretta sotto la pioggia al concerto di Travis Scott è mio padre, per esempio. È il contrario del cringe, è la vibrazione che emanano alcune persone che danno l’impressione di star pensando a tutt’altro che all’essere attraenti o misteriosi, spontanei e capaci, raddoppiando il loro fascino. È Monica Bellucci che all’inizio degli anni Novanta si sposta i capelli con disinvoltura in un’intervista dicendo «Non credo di essere certo la più bella», mettendo in luce la face-card più incantevole del millennio.
Ospite al THE BSMT, Gazzoli gli ha detto: «Tu hai fatto per la musica quello che Lebron James ha fatto per il basket». Capisco la suggestione, ma credo che il parallelismo dovrebbe essere un altro. Cremonini è il Fiorello della musica italiana, entrambi negli anni hanno collezionato vagonate di punti aura, ossia azioni che ti rendono ancora più figo, per restare nello slang internettiano degli zoomer, senza mai perderseli per strada. Sono quei personaggi dello spettacolo che sembra si concedano poco e solo quando dicono loro, ma quando ci sono, si dà per scontato che faranno il botto: l’aura del super-ospite. Condividono il fatto di essere entrambi diventati adulti senza sembrare né vecchi che fanno i giovani né vecchi che disprezzano i giovani; per dirla coi Simpson, né Mr Burns vestito da skater, né nonno Simpson Old Man Yells at Clouds. Non è semplice, considerato quanto velocemente scorra il fiume dell’industria culturale e con quanta facilità si rischi di restare indietro, e forse il segreto è nuotare di lato.
In effetti, di Cremonini non potremmo mai dire che è stato uno a caccia di trend. Anche agli esordi, nel 1999, la sua fisicità da lucertola – ho sempre sostenuto che nell’universo di Bojack Horseman sarebbe stato un geco a interpretarlo –, i capelli tinti di quel cherry red ben prima che fosse sdoganato da Dua Lipa e le sue canzoni romantiche e guascone erano fuori da ogni previsione discografica del momento. Me la ricordo bene l’uscita di …Squérez?, il 30 novembre del ‘99, venticinque anni fa, anticipata dal singolo che ha segnato il nostro millennium bug, 50 Special, e la recita di fine anno in seconda elementare in cui la maestra ci fece imparare a memoria il testo, con tanto di balletto dai passi a mo’ di autostop. Quel disco era ovunque, a casa degli amici, alle feste di compleanno, in televisione, tra gli inseguimenti ai limiti dello stalking di Cremonini per i cinema di Qualcosa di grande e le esibizioni in playback al Festivalbar, alla radio, sul diario e nel portacolori con la rana stampata sopra della mia compagna di banco innamorata di Ballo. E mentre il mondo esulta per la reunion degli Oasis, noi italiani ci meriteremmo quella dei Lunapop, che sono durati così poco ma in modo così intenso da restare ancora oggi tra le pochissime, se non forse l’unica, band mainstream giovanile fatta da giovani senza giovanilismo.
In realtà, il sottotesto della carriera di Cremonini e della sua aura che splende come il primo giorno, suggerisce che sia proprio il fatto di non essere mai tornato indietro sui suoi passi ad averla resa così unica. Quando i Lunapop si sono sciolti, all’apice del loro successo novecentesco fatto di milioni di copie vendute, un attimo prima che gli stream o i download cambiassero il vento della discografia, Cremonini non ha perso tempo. Latin Lover, Vieni a vedere perché, Gli uomini e le donne sono uguali e, soprattutto, PadreMadre, a mio avviso nella top five delle canzoni pop più struggenti degli ultimi vent’anni – «Se sono stato così lontano è stato solo per salvarmi», un verso che anche solo a scriverlo mi fa venire da piangere –, sono i singoli che Cremonini spara a raffica per inaugurare la sua strada in solitaria, al fianco del fido Ballo, singoli che chiunque fosse in vita all’inizio degli anni Zero e avesse un apparecchio di telecomunicazione in casa può dire di conoscere. Da lì in poi le azzecca tutte. Azzecca il fatto di non andare mai a Sanremo, dopo il rifiuto di Un giorno migliore, se non con un medley spavaldo in cui si prende tutto lo spazio che gli serve, da vera star. Azzecca il fatto di non prestarsi alla televisione come giudice per uno dei mille talent che cominciavano a proliferare in concomitanza con i suoi album Il primo bacio sulla Luna, La teoria dei colori e Logico. Azzecca il fatto di conservare l’unico vero tratto distintivo del suo look, il ciuffo, ma non vira verso quella caricatura un po’ grottesca in stile Jovanotti, che, al contrario di Cremonini, sui trend del momento ci ha marciato non poco, fino a diventare questa sorta di pirata-santone freakkettone che dà i voti alla frutta di stagione e invade le spiagge italiane con i suoi mega palchi. Azzecca persino il modo di rispondere a quelle che i giornali chiamano «le bufere social», quando ridimensiona con savoir faire la polemica sulla sua colf moldava che lui chiama Emilia, nonostante non si chiami così.
E sul tema dell’Emilia non ci si può girare attorno. Anche nel suo ultimo disco, Alaska Baby, il featuring con Luca Carboni, San Luca, luogo simbolo della città dei portici, santuario dove i bolognesi chiedono miracoli, c’è la bolognesità, appunto, che trasuda da ogni vocale. Nei singoli come Ora che non ho più te, dove il suono ricorda quello di The Weeknd in Save Your Tears che a sua volta ricorda quello di Words don’t come easy di F.R. David, o in quelli più calcuttiani, che comunque vive a Bologna, c’è l’identità di un luogo e di un personaggio che, piuttosto che adattarsi agli spazi e ai tempi che la musica gli ha permesso di presidiare, ha fatto al contrario. Siamo noi non-bolognesi che ci siamo messi a sognare i colli, noi che ci siamo accodati al polleggio, noi che, un po’ come con i romanzi di Enrico Brizzi, ispirazione per il giovane Cremonini, o con i dischi di Dalla, o persino con i video di Luis Sal, siamo andati a trovarli, anche solo metaforicamente, nella città universitaria più viva d’Italia, e se non è egemonia culturale questa. Ad aggiungere punti aura alla figura di Cremonini, probabilmente, c’è sì l’attaccamento al posto dove è nato e cresciuto, ma anche la volontà di non deludere le aspettative dei grandi nomi che lo hanno preceduto, con un po’ di neanche troppo celato orgoglio cittadino. In fondo, siamo un paese di borghi, contrade, torri e mura, non è poi così assurdo il fatto che abbiamo reso Barbero una celebrity del podcasting e che ci fomentiamo con il campanilismo e gli sbandieratori.
Soy Boy con caratteristiche da Sigma Male, Cremonini potrebbe essere la versione nostrana dell’Elvis che durante i concerti bacia tutte le fan, ma solo con romantica passione, mai viscidume, sempre innamorato anche solo per qualche secondo. Piace alle mamme, alle zie, alle professoresse e alle ragazze; ospite a Le Invasioni Barbariche nel 2010, il cameraman indugia sugli sguardi sognanti del pubblico femminile, in particolare sulla sorella maggiore di Daria Bignardi che è venuta apposta da Ferrara solo per vederlo. Eppure, diceva che dovevamo fidarci di lui, che non era un latin lover. Ci diceva anche che Giulia gli ha detto che è uno stronzo di prima categoria, ma la sua risposta è «la colpa non è mia». In venticinque anni che lo vediamo saltellare sui palchi di Lignano Sabbiadoro o recitare in Via Zanardi 33, cantare una strofa di Domani degli Artisti Uniti per l’Abruzzo o prendersi il palco di Sanremo da outsider, possiamo dire che Cesare Cremonini resta il cantante pop italiano contemporaneo con l’aura più forte di tutti. In altre parole, mio padre.