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L’importanza del 2 febbraio per James Joyce

A cento anni dalla pubblicazione dell'Ulisse, un estratto dal libro Su tutti i vivi e i morti (Feltrinelli), che racconta un periodo trascurato nella vita del grande autore irlandese, quello dei sette mesi trascorsi a Roma nel 1906.

di Enrico Terrinoni

31 luglio del 1906. Poche settimane dopo aver sigillato, con la citata eco dantesca, il suo racconto sul prete morto di nome James, Joyce giunge a Roma, e alle nove e mezzo di sera invia una cartolina al fratello. Lo informa che lui, Nora e il piccolo Giorgio sono molto stanchi; e non si preoccupa di non fornirgli un’impressione a caldo della capitale, perché questa potrebbe cambiare «dopo l’incontro con il direttore di banca». La frase non chiarisce se l’impressione iniziale che ebbe di Roma fosse positiva o negativa; ma conoscendo la sua indole non proprio stakanovista quando si trattava di lavori non letterari, è ragionevole pensare che l’imminente incontro con il suo nuovo capo fosse per lui un motivo di ansia, capace forse di rovinare un’impressione ancora non del tutto negativa della città. Eppure, per qualche motivo che resta oscuro, nella cartolina al fratello Joyce riflette che «Roma piacerebbe più a te che a me».

C’è un dato che colpisce, in queste cinque scarne righe che Joyce invia a Stanislaus principalmente per fornirgli il suo primo indirizzo, via Frattina 52, nel centro di Roma. Si tratta di una ripetizione, o quasi. Non è che un’idea fissa: due accenni alla paura. Il primo riguarda proprio la banca («Terrorizzato dalla banca…») e il secondo chiude la lettera e concerne il fiume di Roma, il Tevere: «The Tiber frightens me», «Il Tevere mi fa paura».

Roma, dunque, sin dall’inizio incute in lui un senso di terrore. Perché? Perché mai un uomo affascinato dal valore simbolico dei fiumi, tanto da scorgerne nei suoi libri a venire un’energia salvifica e rigenerante, ebbe paura quando si trovò davanti le rive del Tevere? Sono parole soppesate, le sue, non tirate via; e, come vedremo, difficilmente ricomponibili a meno che non se ne tenti una spiegazione profonda e non si ricorra a ragioni soggiacenti, dal potenziale torbido e perturbante.

Partiamo dalla fine, allora, cioè dall’inizio, poiché non è dato davvero sapere la ragione profonda per cui il fiume lo spaventasse. Certo, come Stephen Dedalus nel suo Ulisse, non è che Joyce andasse poi così d’accordo con l’acqua. E non poteva non sapere delle devastanti inondazioni del Tevere nei secoli. Una tra le più spaventose era occorsa a Natale del 1598, anno in cui il suo mentore ed eroe Giordano Bruno era rinchiuso in una prigione del Sant’Uffizio a poche centinaia di metri dal fiume. Aveva causato migliaia di morti.

Ce n’era stata poi un’altra importante, capitata in una data che, come vedremo, per Joyce è cruciale, il 2 febbraio del 1805. È ricordata, e lo era già al tempo in cui Joyce visse nel centro di Roma, da una targa lapidaria che segna l’altezza raggiunta dalle acque, posta in via dell’Arancio. Non è dunque improbabile che Joyce abbia avuto modo di vederla. Dall’altra parte del Tevere rispetto a dove prese inizialmente casa, incombeva imponente la sede del soglio di Pietro. E Joyce, alla basilica di San Pietro, ci andò presto, come racconta al fratello, proprio nei primissimi giorni. È un luogo chiave del suo soggiorno nella capitale, capace di evocare ossessioni e connessioni apparentemente scollegate, ma forse parte di un unico mosaico sinaptico. Cerchiamo di ricomporlo.

Nei suoi giri iniziali per le strade del centro, l’aveva colpito un’altra targa, posta a piazza di Spagna, che recitava: «In questa casa Percy Bysshe Shelley scrisse I Cenci e Prometeo liberato». La prima opera è la nota tragedia in versi di Shelley dedicata alle vicende di Beatrice Cenci, condannata a morte nel 1599, con l’accusa di aver ucciso il padre (e il tema del parricidio, come vedremo, è caro a Joyce). Siamo durante il papato di Clemente VIII, lo stesso del rogo di Bruno che ebbe luogo l’anno seguente. Clemente era tra l’altro stato consacrato vescovo di Roma il 2 febbraio del 1592, il che, di nuovo, non è affatto irrilevante nel nostro caso.

Per Joyce le date sono importanti, epifaniche e rivelatrici. Soprattutto una, quella che ho menzionato già due volte nelle righe precedenti: il 2 febbraio. Non era soltanto il suo compleanno, ma anche la data in cui avrebbe voluto far uscire l’Ulisse, il 2.2 del (19)22; e fu anche quella in cui desiderò a tutti i costi ricevere la prima copia stampata del Finnegans Wake, il 2.2 del 1939. Joyce era, infatti, convinto che se le copie di quei testi non gli fossero state recapitate per il giorno del suo compleanno, la mancata consegna si sarebbe certamente rivelata di cattivo auspicio per il loro cammino e futuro nel mondo.

Ma non soffermiamoci troppo su una simile coincidenza, che Jung chiamerebbe “acasuale”, tra la data di consacrazione del papa che avrebbe obliquamente mandato a morte uno dei principali punti di riferimento di Joyce e quella che lui riteneva la più importante per le sue sorti e la più vicina al cuore. Certo, sappiamo bene del suo interesse assai puntuale per le vicende dei papi, già attestato dall’aver cercato le profezie papaline pseudo-gioachimite a Dublino, e dal suo averle usate nell’episodio forse più oscuro dell’Ulisse, ma passiamo comunque oltre, e facciamolo per comprendere qualcosa di più su questo suo primo impatto con la città eterna. Torniamo dunque ai primissimi giorni del suo periodo romano.

Il colloquio con il direttore andò bene: Joyce si ritrovò a lavorare nel reparto corrispondenza straniera, alle prese con un impiego ben pagato: meccanico, ma facile. Eppure, già dalle prime missive, è lì che suggerisce al fratello come potrà ben presto trovarsi in difficoltà economiche. Cosa che puntualmente accadrà, beninteso; ma più per le sue abitudini dispendiose che per un costo della vita troppo alto nella capitale, come anche ebbe a lamentare. Dalle prime lettere non emerge il fastidio per Roma che popolerà invece quelle successive: «Letteralmente tutti i romani parlano e ridono a Georgie. Gli regalano biscotti, frutta ecc. Non credo che abbia pianto una sola volta… La padrona di casa gli vuole bene: una gran brava persona». Poi qualcosa si rompe, e inizierà per lui un periodo carico di angosce e paure, ma anche di intuizioni. Prima fra tutte, quella che richiederà ancora una volta un tuffo nel passato, nell’abisso di una tra le ossessioni più profonde che animano la scrittura dell’Ulisse.

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano