Attualità

Il ritorno degli Ottomani

di Anna Momigliano

Carlo Marsili, ex ambasciatore ad Ankara, discute di Turchia, di Europa, di islam, di democrazia e della dottrina neo-ottomana

Se c’è un diplomatico italiano che conosce bene la Turchia, questo è Carlo Marsili. Non solo perché è stato ambasciatore ad Ankara dal primo febbraio del 2004 fino alla metà giugno del 2010. Con la Turchia Marsili ha lavorato da oltre trent’anni, da quando tra 1979 e il 1981 è stato primo segretario della rappresentanza diplomatica ad Ankara. Fu in quegli anni che conobbe la moglie, Selva, turca: da allora è cominciata quella che lo stesso Marsili definisce “una convivenza vera e propria con questo Paese,” perennemente sospeso tra Europa e Medio Oriente. Fervente sostenitore dell’ingresso della Turchia nell’Unione europea, lo scorso aprile ha pubblicato il saggio La Turchia bussa alla porta. Viaggio nel Paese sospeso tra Europa e Asia (Università Bocconi editore), con la prefazione di Sergio Romano. Oggi parla con Studio della sua esperienza diplomatica, di negoziati europei e, soprattutto, della politica neo-ottomana, ossia la dottrina che sta progressivamente avvicinando la Turchia ai Paesi arabi e, di questo almeno sono convinti in molti, allontanandola dall’Europa.

 

C’è un momento che le è rimasto particolarmente impresso durante il suo mandato di ambasciatore ad Ankara?

Ci sono stati molti episodi e fatti importanti, ma se dovessi ricordarne uno sarebbe certamente il Consiglio europeo dell’autunno del 2004, quando è stato deciso all’unanimità di fare della Turchia un candidato ufficiale per l’ingresso dell’Unione europea, fissando l’inizio dei negoziati ufficiali per l’autunno dell’anno successivo. Fu un grande momento storico.

 

Già, poi però i negoziati si sono arenati.

In effetti su 33 capitoli negoziali che bisognava aprire, affrontare e successivamente chiudere in vista dell’obiettivo finale, ossia la piena adesione, alcuni sono tuttora bloccati. Ma per ragioni politiche che nulla hanno a che fare con i criteri di Copenhagen che la stessa Union europea aveva stabilito per l’ingresso della Turchia. Per esempio alcuni capitoli sono bloccati dalla Francia, e la stessa cosa fa il governo cipriota. E siccome serve l’unanimità per aprirli, il negoziato prosegue a rilento.

 

Nel suo libro, lei ha definito la Turchia come “una democrazia secolarizzata con una maggioranza islamica.” Eppure, ogni giorno che passa, l’importanza dell’islam cresce in Turchia. Non è una contraddizione?

Occorre guardare la Turchia da diverse angolature. La costituzione è assolutamente laica e la parola “islam” non compare mai, a differenza quanto accade qualsiasi altro Paese “islamico”. Tanto che non si capisce bene perché la Turchia debba essere definito un “Paese islamico,” visto che normalmente uno Stato non è definito in base alla religione della maggioranza dei suoi abitanti.
La Turchia è un Paese democratico e costituzionale, esattamente come lo sono tutti gli altri Paesi europei. Il fatto che poi la maggioranza della popolazione aderisca alla religione islamica è un fatto che nulla a che fare dal punto costituzionale.
Certo, l’islam sta avendo in Turchia una nuova fioritura, dovuta alla presenza da ormai nove anni in seno governo turco di un partito – che ha la maggioranza relativa dei voti nel Paese ma maggioranza assoluta dei seggi in parlamento per via della legge elettorale che prevede uno sbarramento del 10 per cento – che è un partito con un orientamento di carattere religioso.

 

Ma la presenza di un partito islamico come l’Akp al governo non è il risultato, più che la causa, di questa “fioritura dell’islam”?

È entrambe le cose. Ne è il risultato perché la maggioranza relativa dell’elettorato turco ritiene che questo partito religioso dovrebbe continuare a guidare ancora per qualche tempo la vita politica, vuoi per le sue radici vuoi perché ha assicurato la stabilità per molti anni, vuoi perché ha guidato una crescita economica assolutamente straordinaria in questi anni.
Ma ne è anche la causa, poiché l’attuale governo sta cercando di introdurre una serie di liberalizzazioni per quanto riguarda la rigida struttura laica dello Stato turco, che vanno incontro alle aspirazioni religiose e in parte anche ai criteri dell’unione europea. Non possiamo dimenticare che questa progressiva o strisciante islamizzazione della Turchia è anche prodotto del negoziato europeo.

 

Che cosa c’entrano i negoziati europei con la progressiva islamizzazione della Turchia?

Il punto è semplice e complesso allo tempo stesso. Nei criteri di adesione, l’Unione europea sottolinea che i politici devono prevalere ai militari, e cioè che i militari devono essere subordinati al potere politico. Questo principio nell’Unione europea è pacifico, meno pacifico lo era e in parte lo è in Turchia, dove i militari sono stati designati eredi di Ataturk e garanti della laicità stato. Ora, è naturale che man mano che prosegue i negoziati con Bruxelles, questa visione deve essere rivista, perché secondo i parametri europei i militari sono subordinati al potere politico. Adesso lo sono anche in Turchia, ma lo sono faticosamente e in maniera meno chiara di quanto non lo siano negli altri paesi europei. Le Forze Armate hanno badato alla laicità dello Stato, l’attuale partito di governo Akp punta alla democratizzazione dello Stato, anche perché viene richiesto da parte europea, e poi perché è un partito islamico democratico, tanto che è osservatore nell’internazionale democrazia cristiana.

 

L’apparato militare sembra incarnare tutte le contraddizioni della Turchia: i garanti della laicità non dovrebbero essere anche i garanti della democrazia?

Sono convinto che laicità e democrazia debbano andare di pari passo. Tuttavia la storia turca è complessa. I militari furono designati garanti della laicità da parte della Repubblica creata nel 1923 da Ataturk. Lo stesso Ataturk era un militare e la laicizzazione dello Stato è avvenuta soprattutto sotto un forte impulso militare. Questo significa che le Forze Armate finora sono state garanti della laicità dello Stato, ma è anche vero che non hanno portato avanti il discorso democratico nella misura in cui avrebbero potuto farlo.
Da ricordare tuttavia che gli ultimi colpi di Stato che si sono verificati in Turchia nel secondo dopoguerra sono sempre stati fatti allo scopo dichiarato di impedire l’islamizzazione del Paese e che dopodiché i militari hanno sempre restituito il potere ai civili. Ma nel momento in cui il potere viene restituito ai civili, rientra in gioco la democrazia e se la maggioranza dell’elettorato vuole o aderisce a un partito di ispirazione religiosa, i militari si ritrovano in difficoltà.
Ora la scommessa turca qual è? Coniugare l’islam con la democrazia, ma anche la laicità con l’islam e la democrazia: questo questo è il grande esperimento turco. Una parte della popolazione non ci crede: coloro che aderiscono alla tradizione kemalista dicono che l’islam non è compatibile con la democrazia e che l’attuale governo gioca la carta dell’Unione europea per islamizzare il Paese. E questo è il punto di vista di una parte della Turchia. L’altra parte dice: no, noi siamo democratici e vogliamo portare avanti le riforme in senso democratico pieno anche perché ci sono richieste da parte di Bruxelles ma non sono per questo. La società turca è profondamente divisa.

 

Nella prefazione al suo libro, Sergio Romano ha scritto che i laici hanno reagito con orgoglio nazionale a molti sgarbi ricevuti da alcuni membri della Ue, mentre i musulmani di più stretta osservanza hanno generalmente votato per un partito, l’Akp, che non ha mai smesso di collocare l’ingresso nell’Ue come al vertice delle sue priorità. È un paradosso?

La parte laica della Turchia è da sempre quella più occidentalizzata ed europeizzata, non è che non voglia ingresso nell’Unione europea. Semmai ritiene che questo ingresso, se portato avanti dall’Akp, porterà all’islamizzazione del Paese senza che Turchia riesca poi a entrare in Europa. Questa è la posizione dei laici. In termini più generali per quello che riguarda l’ingresso in Europa, quando sono arrivato ad Ankara nel 2004 i sondaggi davano tra il 75 e e l’80 per cento della popolazione turca favorevole, oggi questa percentuale è largamente inferiore al 50. È normale che la gente si stanchi di aspettare, che si stanchi dei doppi pesi e delle doppie misure. Il negoziato sta attraversando una fase particolarmente difficile: certo anche i turchi hanno le loro responsabilità, ma la colpa è soprattutto di coloro che da parte europea si sono dimenticati del vecchio principio su cui si basa il diritto internazionale e cioè pacta sunt servanda.

 

Al di là di chi abbia torto e chi ha ragione, forse oggi la domanda che dovremo porci non è tanto se l’Europa vuole la Turchia, quanto se la Turchia desidera davvero entrare in Europa? Mi riferisco per esempio al recente avvicinamento di Ankara ai Paesi arabi, alla proposta di una creazione di una zona di libero commercio con la Siria e Libano…

Assolutamente, questa è una domanda molto corretta. Ora, questa cosiddetta politica neo-ottomana altro non è che una politica di azzeramento dei problemi con i Paesi vicini come Iran, Iraq e Siria. Certo vicini con cui trattare non è semplicissimo. Eppure, la Turchia è riuscita a mediare in termini abbastanza costruttivi e instaurare un rapporto economico molto fruttuoso con questi Paesi. Tanto che non ha risentito, se non misura lieve, della crisi economica europea, perché alla diminuzione degli scambi economici con i Paesi europei, che comunque rappresentano il partner principale, ha fatto da contrappeso un aumento delle relazioni economiche con le nazioni mediorientali e nordafricane, quindi è una politica dettata anche da ragioni economiche e non solo da simpatie religiose o culturali.
Fino a che punto questa politica può essere accettata e benvenuta? Ebbene io sono convinto che la politica estera turca in questo momento è una politica che va nell’interesse degli europei, perché avere un dialogo costruttivo con quei Paesi con cui l’europa non lo ha, ci favorisce.
Però è anche vero che questa politica cosiddetta neo-ottomana deve procedere di pari passo con quella europea, ma deve soprattutto fare registrare progressi anche sul piano europeo. Perché se un giorno i negoziati con Bruxelles dovessero fallire definitivamente, rimarrebbe in piedi solo quell’altra alternativa [ossia l’avvicinamento di Ankara ai Paesi arabi, NdR], e a questo sarebbe un grave danno per la Turchia stessa, perché entrerebbe nel mondo Mediorientale anziché entrare in quello europeo, ma sarebbe altrettanto grave anche per l’Europa, che perderebbe un partner così importante.

 

A proposito di politica neo-ottomana. Una delle questioni che più imbarazza le diplomazie occidentali è il fatto che i governanti dell’Akp intrattengano relazioni pubbliche con gruppi che l’Europa considera terroristi. Penso al fatto che rappresentanti di Hamas siano stati ricevuti ufficialmente in Turchia.

Questo infatti è uno dei punti su cui esiste una controversia. Anche il fatto che la Turchia abbia questi rapporti molti positivi con l’Iran è stato registrato molto negativamente in Europa e negli Stati Uniti. Ora, è un discorso aperto, perché bisognerà vedere se questo rapporto della Turchia con l’Iran si dimostrerà negativo, come si pensa in Europa, o se invece porterà a degli sbocchi positivi. Per quanto riguarda Hamas, certamente Hamas è una organizzazione che noi consideriamo terrorista e non ci piace che la Turchia abbia un dialogo con essa. Ma se è vero che, come sembra, le due principali fazioni palestinesi (Hamas e la Fatah di Abu Mazen, NdR) stanno avendo un tavolo di conciliazione, allora può darsi che la posizione di Hamas in futuro cambi. Ora, se questa posizione dovesse cambiare ed evolversi in senso non più terroristico ma costruttivo, in questo caso la Turchia avrebbe avuto ragione. Certo nessuno può dire che cosa accadrà. È una scommessa.

 

 

Dal numero 3 di Studio