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Storia della parola “buonismo” e di come ha fatto il giro

Un tempo erano i più colti che se la prendevano coi buonisti. Poi abbiamo capito un po’ di cose.

di Anna Momigliano

"We remain human" network activists hold banners as they are chained on the steps of the Ministry of Transport to protest against the Italian government's policy towards migrants, in Rome on July 11, 2018. (Photo by Alberto PIZZOLI / AFP) (Photo credit should read ALBERTO PIZZOLI/AFP/Getty Images)

Mai come oggi la parola buonista è stata usata come insulto con una frequenza e una virulenza raccapriccianti. Mai come oggi la parte sana del Paese, quella che non si riconosce nella deriva xenofoba, si è resa conto che l’idea di buonismo è di per sé problematica, che se è diventato normale attribuire un’accezione negativa all’empatia e a un comportamento civile, allora abbiamo toccato il fondo. A ogni sparata di Salvini contro il buonismo di chi difende i diritti umani, corrisponde la reazione, comprensibilmente indignata, di intellettuali e giornalisti che rispondono che no, rispettare il prossimo non è sdolcinato, è decenza elementare. È una buona cosa questa presa di coscienza. Eppure l’impressione è che manchi un pezzo. Quello che ci siamo dimenticati, forse, è che, c’è stato un passato non troppo lontano in cui gli attacchi al buonismo arrivavano più o meno dagli stessi ambienti che oggi lo difendono (anzi, più precisamente, difendono il loro diritto a non essere incivili). Cioè da un’Italia liberale e colta.

Di cosa parliamo quando parliamo di buonismo nel 2018? L’ha riassunto, qualche giorno fa, Mauro Munafò sull’Espresso: «L’iniziativa delle magliette rosse ha portato diversi politici di destra e 5 Stelle a una replica a cui ormai siamo abituati. Qualcosa che possiamo riassumere più o meno così: “Voi buonisti o radical chic coi soldi siete sempre in prima fila per difendere gli immigrati e non vi interessate mai degli italiani”». La dinamica è questa: un politico, in genere di destra, dice o fa qualcosa che cozza con alcuni princìpi elementari che si davano per scontati (in questo caso, Salvini che promette di chiudere i porti); qualcuno, in genere di sinistra, protesta e per tutta risposta si becca un’accusa di essere “buonista”, “politicamente corretto” o “radical chic”. Munafò paragona la solfa anti-buonista di oggi a un costrutto retorico del passato, cioè la campagna del Regime fascista contro il cosiddetto pietismo: di pietismo veniva accusato negli anni Trenta chiunque simpatizzava con gli ebrei, vittime a quei tempi delle leggi razziali. È lo stesso meccanismo, suggerisce il giornalista, che vediamo oggi, quando simpatizzare con i profughi viene presentato come una colpa (il parallelo tra profughi del 2018 ed ebrei del 1938, terrei a precisare, è un po’ forzato, perché nell’Italia di oggi non ci sono leggi razziali né genocidi in programma, ma non è questo il punto di Munafò: il punto è criminalizzare l’empatia verso il più debole).

La retorica anti-buonista, nella sua incarnazione odierna, coincide non a caso con la crisi dei profughi (gli anni con più sbarchi sono stati il 2015 e il 2016): buonista si è trasformato in un insulto per mettere a tacere chi sosteneva che i richiedenti asilo erano, guarda un po’, persone con dei diritti, e non una minaccia o degli scrocconi che si godevano la pacchia. Ed è proprio in quegli anni che, nel microcosmo liberal, si è sviluppata la protesta contro questo costrutto retorico. Nel 2015 Saviano propose di abolire la parola buonista, definendola «una specie di scudo contro qualsiasi pensiero ragionevole, contro qualsiasi riflessione in grado di andare oltre il raglio della rabbia e la superficialità del commento». È successo che davanti una crisi umanitaria, mentre una parte dello spettro politico esibiva scherno e indifferenza, un’altra parte dell’Italia si è resa conto che fare i politicamente scorretti per il gusto di farlo non è soltanto stupido, è criminale. Non restava che riaffermare, per banale che fosse, il diritto a essere buoni, o se non altro non cattivi.

Non è sempre stato così. C’è stato un tempo in cui prendersela contro il buonismo era considerato quasi sofisticato. Erano i primi anni Duemila. Da dove arriva la parola buonismo? Scrivendo sul Post, Giacomo Papi sosteneva che «fu inventata dal professor Ernesto Galli Della Loggia in un editoriale intitolato “L’Ulivo di Prodi o Garibaldi” pubblicato il 1° maggio 1995 sulla prima pagina del Corriere della Sera». In realtà, esisteva già prima. Già negli anni Ottanta la utilizzava Edoardo Sanguineti, anche se nella critica letteraria: a un certo punto scrive di «un Faust buonista e pentito». Una ricerca su Google Ngram Viewer – la funzione che permette di vedere la ricorrenza di una parola sui libri scannerizzati, ma che non va oltre al 2008 – dimostra che il termine buonismo cresce costantemente dal 1985 e conosce un’impennata intorno al 2005. Un’altra ricerca, questa volta su Google Trends – che monitora le ricerche, non i testi, e parte dal 2004 – mostra almeno quattro picchi: uno, appunto, del 2005, poi un altro nel 2011, un terzo del 2015-2016 e un ultimo del luglio di questo anno. Presumo gli ultimi tre si riferiscano, nell’ordine, al dibattito sul cattivismo e il buonismo sui social, agli anni degli sbarchi e all’attuale governo. Cosa succedeva, invece, 15 anni fa? Succedeva che a prendersela col buonismo eravamo (più o meno) noi.

Era l’epoca in cui dare del buonista non era un modo per sdoganare la xenofobia, ma una reazione a una certa politica e a un certo clima intellettuale, sentendosi non moralmente superiori, ma se non altro più intellettualmente onesti. Prendiamo le invettive, feroci e geniali, di Giuliano Ferrara contro Benigni. Quando il comico andò a San Remo, il commento fu: «È stato un po’ vigliacchetto, buonista in linea con Sanremo e buonista anche in linea con il risultato delle elezioni, delle quali evidentemente ha tenuto conto più di chiunque altro». Prendiamo Gaber, che sempre in quegli anni usciva con “Il potere dei più buoni”. Il testo recita: «Penso ad un popolo multirazziale/ ad uno stato molto solidale/ che stanzi fondi in abbondanza/ perché il mio motto è l’accoglienza/ Penso al problema degli albanesi/ dei marocchini dei senegalesi/ bisogna dare appartamenti ai clandestini». A quei tempi sembrava deliziosamente maligno, una parodia neppure troppo incattivita dello zio girotondino che tutti abbiamo avuto, oggi sembra di pessimo gusto e invecchiato male, come una puntata di Sex and the city.

Era, soprattutto, l’epoca in cui la guerra al politicamente corretto veniva, come si diceva, dagli stessi ambienti che oggi si schierano contro la crociata anti-buonista. Non si tratta, anche per ragioni anagrafiche, delle stesse persone. Però un dato interessante è che la prima ondata di attacchi contro il buonismo sia arrivata proprio da quell’Italia liberale e colta che oggi di buonismo viene accusata e che a queste accuse ha imparato a rispondere per le rime. Nulla di scandaloso, per carità. Sono cambiate le condizioni, il contesto, le persone. Allora non c’era un Salvini, non c’erano i morti di Lampedusa, poi i Millennial su certi temi etici hanno una sensibilità, vivaddio, più sviluppata rispetto  a quella dei loro fratelli maggiori. Senza contare che ci vuole tempo per capirle certe cose: oggi la bolla politicamente consapevole sta con le donne del #MeToo. Forse, ecco, il tema è proprio questo, che ci vuole del tempo a prendere coscienza di certe cose.

Gli attivisti di “Restiamo umani” in protesta a Roma davanti al Ministero dei Trasporti, 11 luglio 2018 (Alberto Pizzoli/Afp/Getty Images)