Attualità

Brian Phillips

Intervista a Brian Phillips, profondo innovatore del giornalismo sportivo: discorso sul calcio contemporaneo e su come se ne dovrebbe parlare.

di Davide Coppo

Brian Phillips è americano, ama il calcio (e tante altre cose, ma principalmente il calcio) e ne scrive per lavoro. Ha un sito, si chiama The Run of Play, e scrive anche per Grantland, uno dei migliori siti di sport e pop del panorama web. Anche The Run of Play è un prodotto eccezionale, e Brian può essere definito una delle migliori penne sportive del pianeta senza eccedere in adulazione. Quello che fa è difficilmente descrivibile, è una sorta di mix tra cultura pop, cultura sportiva, e cultura letteraria. Qualcosa che ti fa vedere le cose da punti di vista completamente inediti. Qualcosa di prezioso e arricchente, che si inserisce in una tradizione giornalistica ben tracciata nel mondo anglosassone e che in Italia manca quasi completamente. Parlare di calcio (o di sport, in generale) attraverso filtri culturali, attraverso una scrittura di qualità e un’analisi approfondita è un modo di valorizzare uno dei legami sociali più profondi del mondo non soltanto occidentale, e insieme uno strumento necessario per elevare il discorso giornalistico di un tema che troppo spesso è relegato alla volgarità da talk show o alla banalità cronachistica da quotidiano del lunedì.

Gli ho scritto per proporgli un’intervista, qualche tempo fa, e con sorprendente gentilezza (sorprendente solo a causa di un mio intrinseco pessimismo) mi ha risposto certo, ma preferisco scrivere che parlare. Ho pensato ok, meglio di niente, ma sbagliavo: la dimensione di Brian Phillips è quella della scrittura, è chiaro. Non avrei potuto pretendere risposte migliori. Puntuali, umoristiche, personali e mai banali. Me lo sono immaginato, alla scrivania, concentrato sulla tastiera e concentrato sulle parole, così importanti, così pesanti. È nata così questa conversazione, sul calcio e su molto altro. Perché il calcio, bisognerebbe ficcarselo bene in testa, è sempre molto altro.

Brian, puoi essere definito un giornalista sportivo, eppure preferirei chiamarti “scrittore sportivo” o piuttosto ancora “scrittore che spesso si dedica alla scrittura sportiva, principalmente calcistica”. Capisci cosa intendo? E come sei arrivato a scrivere di sport?
Ho iniziato completamente a caso, senza nessuna intenzione di farci un lavoro vero. Ho scritto per molti anni critica letteraria, dalla mia laurea in poi, e dopo un periodo così lungo passato a scrivere cose a proposito di altra scrittura ho pensato che sarebbe stato interessante virare su qualcosa di più avventuroso. Ma dopo questa riflessione non ho fatto nulla di concreto, soltanto mi lamentavo moltissimo, al punto che mia moglie alla fine mi comprò un dominio web e disse: «Okay, adesso sei uno “sports blogger”». Ho iniziato a tenere un blog calcistico chiamato The Run of Play per qualche anno e, insomma, è stato quello che mi ha portato a scrivere per SlateYahoo e alla fine per Grantland. Capisco la distinzione di cui parli, ma davvero non mi sono mai preoccupato di dare una definizione al mio lavoro. Non sarei per nulla bravo nel fare quello che tu chiami “giornalismo sportivo” – proprio non credo di averne le capacità; sono un terribile intervistatore, e le mie passioni cambiano continuamente. Anche quando scrivevo esclusivamente di calcio i miei interessi erano piuttosto confusi. Ho passato un intero anno scrivendo quasi solo della squadra di un video-game [la Pro Vercelli che stava guidando a Football Manager 2009, ndA], una cosa che a ripensarci oggi sembra follia. Sono davvero fortunato di essere arrivato aGrantland, che è un posto in cui posso scrivere di Balotelli una settimana e di Star Trek la settimana successiva, e di Nba quella ancora dopo. Probabilmente non è il miglior modo per costruirsi un pubblico di affezionati, ma sono stato fortunato ad aver trovato da subito dei lettori ben disposti a sopportare le mie stranezze, e sono straordinariamente grato di questo.

ⓢ Sai, una cosa a cui ho pensato molto è la similitudine tra Mourinho e la figura di Achille: la rabbia (continua, insaziabile) del portoghese nei confronti della insormontabile superiorità del Barcellona (la litania sciamanica del por qué, o quella volta che ha aspettato nel parcheggio Teixeira, l’arbitro del Clasico del 26 gennaio 2012) e l’ira di Achille contro la moira. Insomma, l’epica è un genere che si sposa facilmente con la narrazione calcistica, mi sembra.
Sono molto convinto ci sia una stretta connessione tra il calcio e la poesia, anche se sarebbe più esatto dire che c’è una stretta connessione tra la maggior parte delle forme di esperienza estetica, e che il calcio sia almeno in parte un’esperienza estetica. Come la poesia, il calcio può essere pensato come un tentativo di rappresentare la vita umana attraverso una performance governata da un dato numero di regole. Ora, lo scopo delle regole del calcio non è estetico in primo luogo, ma uno dei suoi effetti collaterali è di generare momenti di estrema bellezza (pensa solo a un goal di Dennis Bergkamp). E un altro effetto è di dar vita a narrazioni che, dall’esterno, viviamo in una maniera ovviamente molto simile alla maniera in cui viviamo la letteratura (pensa alla carriera di uno come Zidane). E una partita di calcio è una specie di galleria delle emozioni, forti e create però artificialmente, che potremmo avvertire ad esempio attraverso l’arte. Per quanto riguarda i topoi con cui mi trovo meglio, non ci ho davvero mai pensato. Una delle cose più eccitanti della direzione che sta prendendo il giornalismo sportivo contemporaneo è che possiamo liberamente dire, finalmente, che lo sport è un qualcosa che esperiamo in relazione a un milione di altre cose. E che, invece di lasciarlo chiuso ermeticamente nel suo piccolo mondo, lo sport può essere affrontato in tutti i contesti, anche i più complicati (continuo a voler usare la parola “maturi”), che queste relazioni creano. E comunque credo che quello che mi aiuti, personalmente, a capire il calcio, siano i romanzi vittoriani, il punk e i film di fantascienza. E possono anche aiutare altri a capire qualcosa sul mio modo di scrivere.

Sono completamente d’accordo (anche se non credo sarei stato capace di spiegarlo in maniera così chiara), e questo mi porta a pensare a un’altra cosa: forse, alla luce di quello che hai detto, scriviamo spesso (intendo noi giornalisti sportivi, o qualcosa di simile) cose che non esistono poi davvero. Romanticizziamo un giocatore o un allenatore a causa di un singolo beau geste o di una singola partita (pensa a Balotelli e Di Matteo), e di conseguenza, per così dire, creiamo interpretazioni che sono vere soltanto nella nostra mente. Sai, un po’ come quando leggi un manuale di critica letteraria e pensi: «Non credo proprio che l’autore avesse in mente questa cosa qui mentre scriveva quella frase!» (Nella mia esperienza, la cosa succede più o meno sempre leggendo la Divina Commedia).
Oh, credo che capiti in continuazione. È una delle caratteristiche del giornalismo sportivo moderno: abbiamo un accesso “intimo” agli atleti che non si è mai verificato prima, e il risultato di questa vicinanza è che siamo sempre più tentati di trattarli come fossero personaggi di un romanzo. Mario Balotelli è un essere umano, con opinioni e problemi e ricordi suoi, ma lo trasformiamo in MARIO BALOTELLI!!!, questo personaggio da cartone animato un po’ stereotipato incomprensibilmente pazzo e divertentissimo. È una questione morale con cui non ho spesso voglia di confrontarmi però. Cancellare l’umanità di qualcuno soltanto per “entertainment” è ovviamente sbagliato, ma anche con questa consapevolezza è molto difficile dire come potrebbe esistere una cultura sportiva senza questa specie di mitizzazione. L’eroe sportivo vecchio stampo è un’altra forma di caricatura, alla fine, e allo stesso modo falsa nei confronti della vera natura dell’individuo. E in più va detto che gli atleti (e i loro agenti) sono perfettamente coscienti di questo processo e anzi provano spesso a manipolarlo. E questo ci porta, in quanto appassionati, in una specie di zona grigia.

Se devo pensare a un’occasione in cui noi (appassionati e giornalisti) abbiamo decisamente esagerato, mi viene in mente una sola parola: Barcellona.
Mi sa che ti riferisci a quella che ho iniziato a chiamare “narrative fatigue”, cioè quello che accade quando un concetto su un giocatore o una squadra viene ripetuto così spesso che comincia a farti letteralmente impazzire, non importa se è vero o falso. Abbiamo sentito così tante volte che il Barcellona è questa squisita incarnazione della bellezza calcistica che è naturale che abbiamo iniziato a stancarci, a opporci a quest’idea. Ma è fondamentalmente una questione di usura mediatica, ed è pericolosa, perché opporsi alla narrazione più diffusa solo perché è stata ripetuta ad nauseam non è più indipendente di trovarcisi invece d’accordo: in entrambi i casi le tue scelte sono state dettate dai media. Per quanto riguarda il Barcellona c’è stata sicuramente qualche esagerazione, ma penso che in fondo l’essenza sia vera. Sono davvero fantastici da vedere. Credo che tra quindici anni, ripensando a questo periodo, guarderemo indietro e ci sentiremo fortunati di aver ammirato il Barcellona. Di certo non alzeremo gli occhi al cielo pensando a quanto eravamo omologati per esserci innamorati di una cosa così banale. Però faccio parte di quelli che hanno contribuito alla “letteratura” sul Barcellona, quindi sono ovviamente di parte.

ⓢ Conosci sicuramente The Blizzard, Green Soccer Journal, Run of Play (sì, certo che lo conosci), Howler, In Bed With Maradona, Football in the Gulag. Sono tutti media differenti (alcuni più nuovi di altri, e se ne potrebbero citare ancora moltissimi), ma si occupano tutti di calcio e della sua cultura, storia, tattica (eccetera) con un punto di vista differente rispetto a quello a cui eravamo abituati. Puntano alla qualità, forse alla nicchia, piuttosto che alla quantità e alla massa. Vedi anche tu una tendenza nel cercare di dipingere il calcio da un lato “cool” e dall’altro più intellettuale?
Sì. A dire il vero spero sia un cambiamento permanente, e non soltanto una tendenza. Probabilmente il miglior modo in cui l’internet ha influenzato la cultura sportiva è il fatto di aver confermato che – indovinate? – un sacco di gente pretende dal giornalismo sportivo molto più che un riassunto della partita da 3000 battute. Un sacco di gente che legge libri sente anche una forte e irrazionale tensione verso lo sport e, guarda caso, ha molta voglia di riflettere proprio su questa tensione. Il mercato potrebbe essere vasto e diversificato piuttosto che convenzionale fino all’anonimato. Non fraintendermi, è sempre esistita dell’ottima scrittura sportiva. Ma moltissimi approcci che fino a pochi anni fa non erano possibili oggi lo sono. Il clima e i presupposti sono cambiati, ed è eccitante.

Recentemente ho letto un articolo che hai scritto per Grantland sul “ritorno” della Pro Vercelli nel “calcio che conta” (a proposito: sapevi che c’è un blog inglese interamente dedicato alla Pro? Si chiama Parla Calcio) e insomma, è bello vedere un giornalista americano appassionarsi a una piccola storia italiana come quella. Quindi, arrivo alla domanda: come cerchi e come trovi le tue storie? E quali tagli e temi ti calzano meglio?
Certo, conosco Parla Calcio e lo leggo spesso, sono molto invidioso del fatto che Chris King [l’autore del blog ndA] sia potuto andare a Vercelli! [ha scritto davvero così, che è invidioso del fatto che qualcuno sia stato a Vercelli e lui no. Cara Europa, quanto fascino esotico eserciti ancora sul Nuovo Mondo, nda]. Sai, non ho un approccio sistematico alla ricerca di storie. A volte mi imbatto in una notizia online e scelgo di approfondirla, a volte mi arriva un’idea mentre sto facendo colazione, a volte, casualmente, mi faccio un’opinione su qualcosa leggendo le news. Altre volte i miei redattori hanno una grande idea e mi permettono di rubarla. È sempre diverso.

E questo ci porta alla prossima domanda: qual è la giornata tipica di uno dei più famosi giornalisti sportivi del mondo residente negli Stati Uniti? Mi spiego: stai sveglio a orari folli per guardare la Serie A o la Premier League, eccetera?
Uno dei più famosi giornalisti sportivi del mondo probabilmente ha delle giornate fantastiche – champagne alle 9, una seduta di massaggi su un jet privato, un salto al Camp Nou nel pomeriggio, cena a un ristorante con un nome senza vocali e un canapè all’eucalipto che farebbe piangere di gioia un santo. LA MIA tipica giornata, in quanto non-particolarmente-famoso giornalista sportivo, comprende un po’ di aggiornamenti della pagina Twitter e un po’ di preoccupazioni sull’eventualità che Pirlo mi trovi simpatico nel caso facessimo una serata insieme (ma non faremo una serata insieme, e comunque non mi troverebbe simpatico). Effettivamente faccio, a volte, orari strani per guardare i campionati europei, ma visto che vivo sulla East Coast spesso devo soltanto guardare le partite la mattina piuttosto che la sera. E ormai ci sono così abituato che trovo disorientante guardare le partite americane durante ore “normali”.

L’ascesa della Major League Soccer e la crescita della A-League australiana come una sorta di piccola, nuova MLS: credi che il calcio abbia finalmente trovato la sua strada negli Stati Uniti? E che mi dici dell’Australia, e della regola del marquee-player? [quella che permette alle squadre di sfondare per un giocatore, come Del Piero o Heskey, il tetto del salary cap, in modo da stimolare l’attenzione del pubblico non-ancora-calciofilo, nda]
Non posso dirti granché dell’Australia, ma credo che il calcio in America stia crescendo molto rapidamente e continuerà a diventare sempre più popolare. Due cose sono recentemente successe per confermare questo trend: la MLS ha fatto dei passi molto importanti nei rapporti con i tifosi – riconoscere che il calcio “appartiene” ai fan più appassionati tanto quanto alle famiglie borghesi – e la globalizzazione dei media ha reso i campionati europei molto più accessibili, dando la possibilità ai tifosi americani di guardare i migliori giocatori del mondo ogni settimana. Senza scendere in dettagli, quello che mi preoccupa ora è che i club europei stanno trasferendo i diritti tv delle loro partite da network a cui tutti possono avere accesso a canali di nicchia che possono pagare di più ma sono più difficilmente raggiungibili dai fan. Se tutto va bene la domanda sarà tale che questi nuovi canali diventeranno diffusi come gli altri, ma sono preoccupato che i campionati stiano anteponendo guadagni a breve termine alla “coltivazione” nel tempo di una vera fan-base.

Cina, Nord America, Australia, Russia: non è che l’Europa sta sottovalutando la rincorsa “calcistica” di altre nazioni? È in pericolo la sua tradizionale supremazia?
Forse, un giorno, ma credo che passerà molto tempo prima che l’economia del calcio renda possibile una sfida al dominio europeo a livello di club. La Major League Soccer è molto meglio di quanto si pensi in Europa, ma sopra un certo livello il calcio è questione di sottili differenze, e quelle giocheranno tutte a favore dei campionati del vecchio continente ancora per un bel po’.

Torniamo alla prima domanda: recentemente leggevo una frase pronunciata dall’ex guardia del corpo di Leo Messi, che stava parlando dell’importanza del calcio nel mondo. Ha detto più o meno così: che i Rolling Stones possono riempire lo stesso stadio una o due volte al massimo, mentre solo il calcio può riempirlo ogni domenica. Mi pare esprima bene il rilievo che il calcio ha nella maggior parte degli stati. Che ne dici?
Una cosa a cui penso spesso è che l’ubiquità culturale del calcio sia una specie di circolo virtuoso: è un evento che può unire chiunque, in un certo senso, perché chiunque è già lì pronto per essere unito con gli altri. Con questo voglio dire che se, poniamo, la testata di Zidane del 2006 fosse avvenuta su un campetto sperduto da qualche parte, avrebbe rappresentato un triste, spiacevole incidente. Ma poiché tutto il mondo la stava guardando, si è trasformata in un momento assolutamente scioccante che nessuno dimenticherà mai. E visto che il calcio produce queste narrazioni indimenticabili, siamo destinati a guardarlo ancora e ancora. Se sei Sepp Blatter, questa è una gran bella dinamica – infatti probabilmente spiega perché l’intero gioco possa essere gestito dai cretini criminali che lo gestiscono eppure rimanga una forza centrale nella cultura mondiale.

Dal numero 12 di Studio

Articolo apparso originariamente qui