Attualità

Lo spirito di Bolaño (e di ogni giovane scrittore)

È uscito Lo spirito della fantascienza, romanzo giovanile e inedito del cileno: un esperimento di formazione da leggere come un'invocazione alla letteratura.

di Francesco Guglieri

Negli anni più ansiosi della mia giovinezza, se la notte a letto non riuscivo a addormentarmi per pensieri agitati – interrogazioni, esami, amori infelici, il generico informe domani – svuotavo la testa elencando mentalmente la bibliografia di Philip Dick, i personaggi di Dune, la genealogia di influenze che univa Samuel Delany ai cyberpunk, finché la meccanica ripetizione di quei nomi amati non mi introduceva alla quiete del sonno. Quel rosario di nomi snocciolati nel dormiveglia aveva anche qualcosa della preghiera, della supplica, un’invocazione «agli dèi ulteriori» della fantascienza da parte di un loro fedele adepto. Me ne rendo conto adesso leggendo Lo spirito della fantascienza, romanzo giovanile e inedito di Roberto Bolaño, una divinità entrata poco più tardi nel mio pantheon letterario, quando intorno ai vent’anni conobbi anch’io i miei «perros romanticos», compagni di università e letture che mi convinsero a uscire di casa.

Romanzo giovanile e inedito, dicevo, ma non incompiuto, il testo dello Spirito della fantascienza (primo libro di Bolaño pubblicato in originale da Alfaguara e non più dal suo storico editore Anagrama dell’amico e sodale Jeorge Herralde: evento che in Spagna ha lasciato non pochi strascichi polemici) è contenuto in tre quaderni – in bella copia – su cui l’autore ha lavorato dall’inizio degli anni Ottanta fino almeno all’84 (anno in cui con Antoni García Porta pubblica il primo romanzo, Consigli di un discepolo di Jim Morrison a un fanatico di Joyce). Nell’edizione che in questi giorni Adelphi manda in libreria (tradotta da Ilide Carmignani) sono riprodotte in appendice alcune pagine di questi quaderni insieme a altri appunti, taccuini, note preparatorie, lettere e reliquie varie del culto bolañiano a impreziosire un volume già di suo molto bello.

James Ballard diceva che «il materiale a cui ricorre uno scrittore immaginoso si sedimenta in lui nell’infanzia»: e per quanto ciò sia verissimo per l’autore di Crash, con tutto il suo repertorio di piscine vuote nelle ville di Shangai e bombardieri della Seconda guerra, con Bolaño ho il sospetto che il materiale a cui attinge in ogni sua opera si sia accumulato verso i vent’anni, in quel tempo di febbre e furore, di giri a vuoto e letture che chiamano gioventù.

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Lo spirito della fantascienza è, prima di tutto, la storia di due amici, due giovani cileni, Jan Schrella e Remo Morán, che vivono in uno scalcagnato appartamentino nella Città del Messico degli anni Settanta. Jan non esce mai di casa e passa il tempo a leggere romanzi di fantascienza e a scrivere lettere ai suoi autori preferiti (Philip José Farmer, Fritz Leiber, Ursula K. Le Guin…). Mentre Remo è sempre fuori, in giro per il DF (il Distrito Federal, cioè la capitale e i suoi dintorni come ben sa il lettore di Bolaño) in motocicletta – «in quei giorni le moto circolavano sempre più numerose dentro le poesie, non altrettanto i poeti in sella a moto vere e su strade vere» – collabora con oscure riviste letterarie, partecipa a seminari di poesia. Proprio in una di queste riunioni conosce il poeta José Arco con cui inizierà un percorso di iniziazione all’amore – complici le famigerate sorelle Torrente – e alla letteratura. Intervallate a questa narrazione ci sono appunto le lettere di Jan ai suoi idoli – le parti più divertenti del libro, almeno per me – invocati come numi tutelari, guide letterarie e morali, struggenti e buffissime perorazioni per la fantascienza cilena e accuse all’imperialismo statunitense in Sud America.  Infine c’è un terzo elemento, l’intervista a uno scrittore, probabilmente lo stesso Jan del futuro, che ha appena vinto un premio e racconta il suo romanzo.

Per quanto non c’entrino niente con lo Spirito, leggendolo pensavo a altri due libri che girano intorno al tema dell’inizio, del diventare se stessi, in un certo senso dell’esordire. Uno è La preparazione del romanzo, l’ultimo corso tenuto da Roland Barthes al Collège de France in cui, percependo il rischio «di ripetere se stessi», si apprestava a rispondere al richiamo di una «vita nova» e scrivere, per la prima volta, un romanzo. (Il destino laverà via questa possibilità: Barthes morirà pochi giorni dopo l’ultima lezione, investito dalla camionetta di un’impresa delle pulizie). E i saggi di Jonathan Lethem raccolti ne L’estasi dell’influenza: proprio quelli in cui si interroga su cosa vuol dire «diventare grande» per uno scrittore che è nato come appassionato di fantascienza. (Risposta: «Uscire dal proprio autoesilio»). Tra l’altro in quel libro Lethem dice una cosa verissima proprio su Bolaño: «Non si stanca mai di rendere nel dettaglio il modo in cui la passione per la letteratura cammina sempre sul filo del rasoio tra catastrofica irrilevanza e vocazione ineffabile».

Nello Spirito a un certo punto uno dei personaggi dice «Sai, era come Marlene Dietrich che canta “Blowing in the Wind” di Dylan, qualcosa di strano, orripilante, ma molto simile, non so come, ma molto, molto simile». Ecco, leggere lo Spirito della fantascienza fa lo stesso effetto. Romanzo imperfetto, acerbo, a tratti frustrante ma in cui i ritrovano in nuce, anzi no, già sviluppati però diversi, leggermente sfasati, tutti gli elementi che rivivranno nell’opera successiva di Bolaño: José Arco è la versione alternativa, se non la prova generale, di Ulises Lima (a sua volta ricalcato sul poeta infrarealista e migliore amico di Bolaño, Mario Santiago; le sue peregrinazioni nel DF a caccia di riviste letterarie clandestine sono l’anticipazione in sedicesimo dei Detective selvaggi («Il creatore della rivista Mi Pensil scoppiò a ridere: nessuno si era mai azzardato a chiamare poeta il dottor Carvajal. Figlio di puttana, sì; brutto stronzo, agnello di Dio, eremita traditore, pure. Anche se ha letto più lui da solo, ragazzi miei, di noi tre messi insieme»); le sorelle Torrente le ritroveremo nelle sorelle Font; e poi l’«Avenida Bucareli», il «cafe leche», l’«Universidad desconocida». Ma più di tutto, nello Spirito della fantascienza, c’è già l’atmosfera delle opere successive, quel misto di disperazione e romanticismo, povertà e idealismo, tenerezza e furore, orrore e disperazione, struggimento per un’età già perduta mentre la si vive e rabbia per un paese e un continente oppressi, schiacciati dall’ingiustizia, in cui le ragazze hanno «il sorriso terminale di quell’altro Messico che a volte appariva fra le pieghe di qualsiasi alba, per metà voglia rabbiosa di vivere, per metà pietra sacrifcale».

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Sempre più spesso viene da chiedermi cosa me ne faccio adesso di tutti gli Urania e dei Cosmo Nord letti da ragazzino. Dove me la metto ora tutta quella sapienza da invasato accumulata in quegli anni? Cosa devo alla cultura popolare in cui sono cresciuto? E cosa mi deve lei? Davvero è stato tutto tempo sprecato, di cui rimane solo il vago ricordo di pomeriggi passati a leggere sdraiati sul divano? L’affetto che provo per lei e i suoi prodotti è l’ennesima astuzia del capitale o, come Prospero, dovrei riconoscere quel mostro come cosa mia?

Jan Schrella e Remo Morán, l’autoesiliato che scrive lettere agli scrittori di fantascienza e il detective selvaggio che attraversa la notte elettrica, sono ovviamente emanazioni dello stesso Bolaño, due volti della stessa persona. Sono il riconoscimento di come ogni scrittore sia l’impasto di entrambi – o, in altri termini, di come la formazione dello scrittore richieda di attraversarli entrambi. Tutti i romanzi di formazione sono romanzi di fantascienza, perché formarsi vuole dire immaginare il futuro, progettarlo, sognarlo a occhi aperti con gli amici ossessionati dalla poesia intorno a un tavolino di negroni o con una ragazza la notte nella sua camera da fuorisede.

Lo Spirito della fantascienza è un romanzo di formazione: non solo dei suoi personaggi ma anche del suo stesso autore. È come se in queste pagine Bolaño immaginasse il suo futuro di scrittore e vi mettesse dentro tutte le immagini, gli eroi, gli ambienti a cui poi ricorrerà. Il lettore bolañiano si trova allora a vivere qualcosa di simile alla situazione descritta nel più bel racconto di Dick, Qualcosa di piccolo per noi temponauti, dove un gruppo di viaggiatori del tempo, per un incidente «al lancio», si ritrovano sbalzati avanti e indietro nel tempo, eternamente bloccati in un loop temporale, né morti né vivi, in cui tutto si ripete sempre uguale e sempre un po’ diverso, sfasato, e le epoche si sovrappongono e si mescolano mai perfettamente come nel ricordo e nella lettura. Forse è questa malinconia, questa piccola cosa, ciò che resta a noi temponauti che abbiamo lasciato alle spalle i libri letti da ragazzi, gli amici, noi stessi di ieri e gli scrittori morti troppo giovani.

 

Nelle immagini: la copertina del libro e foto di esperimenti con aquiloni tetraedrici di Alexander Graham Bell (The Public Domain Review).