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Black Mirror non esiste più perché è stato superato dalla realtà

Dopo quattro anni di pausa, la serie è tornata su Netflix con una sesta stagione. Ma i tempi, alla fine, hanno reso obsoleto anche Charlie Brooker e le sue distopie.

di Francesco Gerardi

Charlie Brooker non ci prova neanche più, ormai. Viene quasi da apprezzare – compatire? – la rassegnata autoconsapevolezza con la quale racconta come ci si sente a essere l’autore di Black Mirror nel mondo che Black Mirror lo ha prima realizzato e poi superato. «E ora, qualcosa di completamente diverso», aveva detto Brooker all’annuncio della sesta stagione della serie. Sembrava tutto parte del tran tran promozionale che accompagna sempre le nuove uscite: abbiamo fatto cose nuove, vogliamo farvi vedere roba diversa, dobbiamo andare oltre le nostre abitudini e oltre le vostre aspettative. Tutte parole, anche belle, pure comprensibili, ma il fan di Black Mirror alla fine è come tutti gli altri fan. Non vuole essere stupito. O meglio: vuole essere stupito nel modo giusto, cioè sempre nella stessa maniera, per le stesse ragioni, con gli stessi scopi. Nel 2014 Brooker spiegava in un pezzo sul Guardian il perché di Black Mirror: La serie nasceva dall’odio del suo autore per Siri, l’assistente vocale di Apple, «un viscido, servile leccaculo privo di qualsiasi autostima, e che funziona incredibilmente bene». Temeva, Brooker, le conseguenze che simili “gadget” – così gli piaceva chiamarli – avrebbero avuto sulla non affidabilissima né solidissima psiche umana. Spiegava che cos’era il black mirror che dava il titolo alla serie: l’abisso personale e miniaturizzato che ognuno di noi oggigiorno si trova sempre davanti, «su ogni muro, su tutte le scrivanie, nel palmo di qualsiasi mano: lo schermo freddo e scintillante di un televisore, di un monitor, di uno smartphone».

Sono passati dodici anni da quel pezzo sul Guardian e dalla prima stagione di Black Mirror. Forse alla fine si spiega tutto così: con il tempo che passa. D’altronde viviamo nell’epoca in cui il tempo scorre accelerato: dodici anni oggi valgono più di dodici anni in qualsiasi altro momento della vicenda umana. Brooker deve essersene reso conto nei quattro anni trascorsi tra la quinta e la sesta stagione di Black Mirror, quest’ultima arrivata da poco su Netflix preceduta dal battage comunicativo che si deve a tutti i ritorni di tutte le grandi proprietà intellettuali moderne. Deve essersene reso conto e deve essere stato doloroso, per un uomo che si è costruito una carriera sulla capacità di arrivare prima sulle cose: non c’era più modo di stare al passo e quindi tanto valeva non provarci nemmeno. Guardando la sesta stagione di Black Mirror è la prima cosa che viene in mente: Charlie Brooker non ci prova neanche più, ormai, vale la pena ripeterlo. Fa una certa tristezza vederlo lì, lì nel mezzo, lì nel mucchio, insieme a tutti gli altri, a fare, dire e pensare quello che è già stato fatto, detto e pensato. Prendere in giro la scarsa originalità delle piattaforme streaming, responsabili della serializzazione – sia dal lato della produzione che di quello del consumo – della cultura pop contemporanea, colpevoli di aver trasformato gli esseri umani dai soggetti agli oggetti della loro stessa cultura. È il punto dei primi due episodi della nuova stagione di Black Mirror (“Joan is Awful” e “Loch Henry”), quelli che tutti stanno commentando con un misto di disperazione e illusione, per autoconvincersi che la serie abbia ancora un senso. Ma chi è che non ha fatto la sua battuta cattiva sull’era dello streaming e della binge culture, ormai?

Lo ha fatto Nanni Moretti nel Sol dell’avvenire. Persino l’equivalente umano dello zucchero filato, Wes Anderson, ne ha recentemente detta una cattivissima su Netflix. Che le piattaforme siano davvero onnipotenti lo si capisce dall’indifferenza delle loro reazioni. Sia Brooker che Anderson per Netflix ci lavorano, infatti, e i nuovi padroni a censure, reprimende e licenziamenti non sono affatto interessati. Perché tanto tutti ci devono lavorare, con loro, perché le alternative sono sempre di meno e sempre meno redditizie. Brooker non avrebbe mai avuto su Channel 4, il canale broadcast che ha trasmesso le prime due stagioni di Black Mirror, il budget per una fotografia sontuosa come quella del terzo episodio di questa sesta stagione, “Beyond the Sea”. Né avrebbe mai potuto permettersi un cast così ampio, conosciuto dal pubblico e riconosciuto dalla critica (a proposito: com’è possibile che Aaron Paul non abbia fatto la carriera che il suo immenso talento attoriale merita?). Lavorare per Netflix oggigiorno si deve, dicevamo. E quel che resta nella “costrizione” è lo spazio per ironia triste e velleità autoconsolatorie: sto distruggendo il sistema dall’interno, sembra bisbigliarci Brooker dal retroscena dei primi due episodi. Ma è come se Allen Ginsberg si fosse fatto commissionare “Urlo” da Moloch in persona: chi lo prenderebbe sul serio, a sentirlo recitare quella poesia? Non è certo un caso che la battuta più divertente, e di conseguenza anche più vera, di tutta la nuova stagione di Black Mirror, arrivi intorno alla metà di “Joan is Awful”: «Alla fine tutto diventa engagement». La pronuncia la Ceo di Streamberry, il surrogato di Netflix nella finzione di Brooker. Fa ridere perché è vero, appunto: in questi giorni tante persone mi hanno detto di aver visto la nuova stagione di Black Mirror perché prende per il culo Netflix.

È possibile che la colpa non sia nemmeno tutta, o affatto, di Brooker. Ci sta che quelle macchine che lo terrorizzavano dodici anni fa abbiano vinto e ormai abbiamo nei loro confronti l’atteggiamento che si ha nei confronti dei padroni: né disprezzo né terrore ma rassegnazione e ammirazione, e che satira si può fare per i sudditi digitali che ormai amano i loro despoti elettronici, con che distopia si può terrorizzare un pubblico che vive in un presente in cui quella distopia è quasi la migliore delle ipotesi oramai sfumata. Brooker ha creato Black Mirror partendo dal terrore di ritrovarsi un giorno da solo in una stanza a parlare con lo schermo nero, ma che terrore è, questo, nell’epoca di ChatGPT, in cui sono i gadget, le macchine, gli schermi neri a cominciare, condurre e concludere la conversazione? Chi è che ha paura di Siri, oggi? E quindi che senso ha guardare Black Mirror, oggi? O, forse, sarebbe più corretto dire che Black Mirror oggi non esiste più: le paure che raccontava sono state ormai superate, anzi, trasformare in nostalgia. Chi non rimpiange i tempi in cui i gadget, le macchine, gli schermi neri erano soltanto «viscidi, servili leccaculo privi di qualsiasi autostima, e che funzionano incredibilmente bene».

È come se a un certo punto del lavoro sulla sesta stagione di Black Mirror, Brooker avesse avuto questa epifania e avesse deciso di lasciar perdere. Se i primi due episodi sono, tutto sommato, ancora il Black Mirror che avevamo conosciuto all’inizio degli anni Dieci, e il terzo è il Black Mirror iniziato con il trasloco su Netflix (quello del tecnoromanticismo à la “San Junipero”, per capirci), il quarto e il quinto episodio – “Mazey Day” e “Demon 79” – sono delle inspiegabili e surreali e brusche virate verso l’horror sovrannaturale. Licantropi, demoni, notti di luna piena e apocalissi bibliche. Guardando questi due episodi, sono rimasto ammirato di fronte alla capacità di Brooker di avere ragione nonostante tutto, a prescindere dalla tortuosità del ragionamento. Finita di guardare la sesta stagione di Black Mirror, infatti, visti gli ultimi due, orrendi, imbarazzanti episodi, mi sono ricordato una frase che Brooker usava per spiegare il senso di Black Mirror e l’insensatezza dei nostri tempi: «Consideriamo delle abitudini cose che fino a cinque anni fa non avrebbero avuto alcun senso». È così che ci si sente, oggi, a guardare Black Mirror: è un’abitudine che cinque, o dieci, anni fa non avrei mai preso se fosse stata quella che è oggi.