Cultura | Cinema
Beau is Afraid, imperfetto ma imperdibile
Arriva oggi nelle sale il nuovo film A24 e diretto da Ari Aster, che questa volta si allontana dai precedenti Hereditary e Midsommar per fare una cosa completamente diversa. Forse persino troppo.
Esce oggi nei cinema italiani il nuovo film di Ari Aster, Beau is Afraid, e si può dire che, perlomeno per un certo tipo di pubblico, sia uno dei più attesi della stagione. Tanto per cominciare, se il nome di Aster non vi suonasse troppo familiare, potrebbero accendervi una lampadina i titoli dei suoi lavori precedenti, che sono Hereditary (2018) e Midsommar (2019, questo sicuramente noto anche solo per i meme che ne riprendono la locandina), tra i film che più hanno rappresentato una sorta di nuovo horror molto in voga negli ultimi anni, nonché tra i titoli più significativi della casa di produzione A24.
La A24, che prende curiosamente il nome dall’autostrada Roma-Teramo (e non è una battuta), non solo è probabilmente la casa di produzione più popolare degli ultimi tempi, ma è anche in costante crescita da ogni punto di vista: dopo l’esplosione di Uncut Gems, The Whale è stato un altro film di cui si è parlato moltissimo (anche per l’interpretazione – e il ritorno – di Brendan Fraser), ma soprattutto è stato l’enorme successo agli Oscar di un film così particolare e fuori dai canoni come Everything Everywhere All At Once ad avere sancito definitivamente il ruolo di primo piano di questa realtà newyorkese nel cinema contemporaneo. Aggiungiamo che questo, per Ari Aster, dovrebbe essere un po’ il film della consacrazione definitiva, in cui si allontana dall’horror (più classico) dell’opera prima e da quello (più folk-pastorale) della seconda, con un budget a disposizione triplicato rispetto al passato, e con un attore protagonista di prima fascia come il sempre bravissimo Joaquin Phoenix.
Inoltre già il trailer aveva caricato di aspettative gli appassionati, che intuivano di potersi aspettare qualcosa di strano e minaccioso, ma anche tangente alla categoria del fantastico, e allo stesso tempo con elementi comici: una storia di formazione, un dramma psicologico, una “commedia da incubo”, una fiaba, un delirio ebraico-freudiano sui traumi che possono germogliare dal sesso e dai rapporti famigliari, un’avventura negli abissi dell’animo umano e nelle sue debolezze… Insomma un progetto davvero ambizioso. Ma com’è poi, alla fine, questo Beau is Afraid?
Cominciamo dalle note più negative: ambizioso è ambizioso. Anche troppo. Tre ore di durata si fanno sentire, e anche la sensazione che Aster si sia fatto prendere un po’ troppo la mano da tutta quell’ambizione e da un’infinità di idee. C’è talmente tanta roba che a tratti sembra di avere guardato tre film diversi messi insieme, e del resto la prima parte del film riprende un corto dello stesso regista del 2011 (intitolato appunto Beau). Non sempre Aster, che è anche autore della sceneggiatura, riesce a mantenere il controllo su tutti quegli elementi e su tutta quell’ambizione. Un riferimento abbastanza palese del film è il lavoro di Charlie Kaufman (in particolare quello di Synecdoche, New York), ma è anche chiaro che Aster non sia a quel livello come scrittore (del resto stiamo parlando di uno dei più grandi autori che hanno segnato il cinema degli ultimi venticinque anni), soprattutto per quanto riguarda la maestria nel saper dosare gli elementi, nel tenere le redini di un progetto senza perderle dalle mani.
Arrivati a questo punto potreste pensare di stare leggendo una stroncatura, ma la verità è che non è affatto così: il giudizio sul film è positivo (o meglio: non so dire davvero se mi sia piaciuto, e questo è interessante e stimolante, e lo rende un film da vedere), proprio anche in virtù dei suoi difetti. Perché si tratta dei difetti che può avere soltanto il film di qualcuno che osa, che non ha paura di fare qualcosa di estremamente ambizioso anche a rischio di andarsi a schiantare, che non si pone limiti alla quantità di cose, di toni, di stili, di tematiche, che può andare a infilare in tre ore di cinema, che non ha paura (cosa che aveva già dimostrato anche in passato) di andare oltre il senso del ridicolo – e qui dico solo “la scena della soffitta”, poi capirete. Dico “capirete” perché il consiglio è quello di andare a vedere Beau is Afraid, di premiare chi in un’epoca in cui il cinema sembra fatto soltanto di franchising, sequel, film per bambini e adolescenti, oppure di cinema per adulti che ha la caratteristica di sfornare in continuazione film accomunati dal tema “nostalgia per il cinema dei vecchi tempi” (citiamo Babylon solo perché è uno degli ultimi usciti e dei più importanti), ancora porta avanti un’idea diversa, chi dopo aver raggiunto una certa notorietà non decide di tirare i remi in barca con un progetto più semplice e per una platea più ampia, ma di spingere con tutta la forza a disposizione sul pedale dell’acceleratore, e pazienza se dietro la prima curva potrebbe esserci un muro.
Beau is Afraid è un film imperfetto, ma è in grado di stupire, di far ridere e incazzare, di prendersi il coraggio di non farsi capire. Ed è talmente pieno di cose che ci penserete per giorni. Citavamo in precedenza Charlie Kaufman, e perfino per lui, pur con tutto quello che ha fatto, i tempi sembrano essere difficili: proprio Synecdoche, New York, per quanto amatissimo dalla critica (basti dire che Roger Ebert prima di morire lo inserì nella top ten dei suoi film preferiti di sempre) fu un flop commerciale, e da allora ha avuto modo di realizzare soltanto un film in stop motion con meno della metà del budget (Anomalisa) e un altro andato pressoché direttamente su Netflix (Sto pensando di finirla qui). Insomma sono tempi duri per chi cerca di fare cinema in Serie A ma senza accontentarsi di seguire la corrente, di dare al pubblico quello che vuole, provando invece a portare avanti una visione artistica complessa e a farlo senza compromessi. Lo stesso Kaufman lo ha detto recentemente, in un discorso ai WGA Awards, senza dimenticare anche un’esortazione per i suoi colleghi: «Il mondo è bellissimo. Il mondo è incredibilmente complicato. E noi abbiamo l’opportunità di farlo vedere. Se rinunciamo a questo per la comodità, tanto valeva fare i manager». Non si può dire che Ari Aster non l’abbia preso in parola.