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Baby Gang, il talento di essere sbagliato

L’uscita del suo nuovo disco, Innocente, ha riacceso la discussione attorno a una delle figure più polarizzanti della scena musicale italiana, un rapper controverso ma indiscutibilmente bravo.

di Marco Bianchessi

Chi è Baby Gang? Un criminale? Un rapper? Un ragazzo con un passato difficile? Il simbolo di una cosiddetta Italia del futuro che però, in realtà, esiste già? Una storia di rivalsa? L’ennesimo caso di cronaca? La sua storia personale e musicale si può leggere in tali e tanti modi che è impossibile trovare quello più esaustivo o anche solo meno incompleto. Tutto ciò che riguarda Baby Gang – sia a livello personale che artistico – nome di battesimo Zaccaria Mouhib, tocca sensibilità molteplici e diversificate. È la ragione, questa, per la quale è diventato la più polarizzante delle figure emerse dalla scena musicale italiana contemporanea, e l’uscita del suo nuovo disco, Innocente, è diventata un dibattito: non solo su di lui, ma sul momento culturale e sociale del Paese. Ed è anche la ragione, questa, per la quale la bilancia della sua fama resta sempre perfettamente in equilibrio tra quelli che lo conoscono perché fan e quelli che lo detestano perché hater.

Parlare di Baby Gang significa affrontare una serie di rimossi collettivi. Primo fra tutti il carcere, perché in Italia è difficile discutere di sistema carcerario e della sua funzione: vuoi perché veniamo da venti anni di berlusconismo, vuoi perché in questi stessi venti anni il giornalista più noto del Paese è stato Marco Travaglio. Per questo un rapper che da dieci anni fa avanti e indietro tra galera e comunità di recupero è uno shock culturale per la maggior parte degli ascoltatori. A proposito di Berlusconi: in molti hanno scoperto il nome Baby Gang quando su Instagram disse che il suo politico preferito era l’ex Cavaliere. Come spesso è capitato a Mouhib, gli altri hanno riso ma lui era serio: in un’intervista a Rolling Stone ha spiegato che secondo lui Berlusconi è stato l’unico politico a capire quanto il sistema giudiziario italiano fosse pieno di problemi. Se a quanto detto fin qui si aggiunge il fatto che Baby Gang è un italiano figlio di immigrati marocchini, ecco la polemica permanente.

Tutto si spiega con il modo di raccontare l’immigrazione, e i figli dell’immigrazione, in Italia. Con una dicotomia, in sostanza: da una parte le storie “giuste”, di integrazione educata e discreta; dall’altra la cronaca locale e i casellari giudiziari dei tribunali. E allora diventa chiaro perché la storia di Baby Gang sia diventata la polemica permanente di cui sopra: perché è un 21enne di origini marocchine, che ha passato metà della sua vita tra carcere e comunità. Di prigione è uscito a marzo di quest’anno, dopo essere stato accusato di aver preso parte a una sparatoria avvenuta nella notte tra il 2 e il 3 luglio 2022 a Milano, durante la quale erano stati gambizzati due uomini. Una vicenda che riassume quasi tutto della vita e della carriera di Baby Gang: lui stesso ha raccontato che quella sera in Corso Como non ci sarebbe dovuto essere. Ci è finito a causa dell’annullamento di un concerto, l’ennesima cancellazione dovuta a un Daspo ai suoi danni.

Se il carcere rappresenta una metà dell’identità di Baby Gang, l’altra è la comunità di recupero. Una delle figure fondamentali della sua vita è don Claudio Burgio dell’associazione Kayros, che durante il periodo di detenzione si è preso cura del suo cane e che in un’intervista a Fanpage ne fece uno dei ritratti più completi, sinceri e umani. Da tutto questo si capisce perché la storia di Baby Gang è inevitabilmente problematica: perché il rischio di omettere qualcosa o di essere imprecisi ha un peso diverso, e maggiore, che in tutti gli altri casi. Anche per questo è più facile affidarsi alle canzoni per parlare di lui, e per quanto riguarda il rap, Baby Gang è un diamante. Certo, ancora grezzo – soprattutto per quanto riguarda la costruzione del disco – ma certamente un talento. Basta sentire la sua strofa in “Rapina” per rendersi conto di come riesca a dare forma, in pochissime barre, a un’immagine vivissima di degrado urbano: «Mancava la mula / A casa la muffa / Non funziona la stufa / Baby fra si stufa / Esce fa rapina / Porta una denuncia / Mamma che lacrima». Il lessico è scheletrico, essenziale, ma proprio per questo pulsa come magma, e la melodia che costruisce sulla strofa lo rende quasi un lamento. E se questo non bastasse per convincere delle sue qualità, si può ascoltare cosa dice riguardo la sua esperienza in carcere in “Cella 3“: «Venti mesi solo chiuso in tomba / Non c’era nessuno, solo io, giuro / Col compagno in cella che urlava / Giuro mi impicco se non mi aprite questo blindo». O ancora: il ritornello quasi canticchiato di “Mentalité“, il suo pezzo più famoso, decine di milioni di ascolti su Spotify, infiniti remix spiegati proprio con la sua immediatezza e semplicità. Delle sue qualità il primo sostenitore è Marracash, che ne ha pubblicamente riconosciuto il talento e sostenuto la sua scelta “politica” di cantare con fierezza delle proprie origini e difficoltà.

Per tutto questo e per le vicende giudiziarie che nell’ultimo anno lo hanno coinvolto, il suo nuovo disco, Innocente, era attesissimo. Dal momento in cui il rapper ha messo piede fuori dal carcere, si sapeva infatti che qualcosa avrebbe fatto uscire. Ed a uscire è stato uno dei dischi già tra i più ascoltati su Spotify, con dentro featuring assieme a nomi fondamentali della scena italiana – Guè, Rondodasosa, Ghali, Lazza ed Emis Killa – e un gigante della scena francese come Lacrim, con cui firma “Gustavo”, uno dei brani più forti del disco. È una ovvia rivincita personale per il rapper, che ha scoperto all’improvviso di godere di un unanime consenso di pubblico e critica: come mai prima, è stato preso sul serio e il suo lavoro descritto come sì difficile ma anche ricco e denso. Guè lo ha battezzato come uno dei migliori rapper italiani in circolazione. Sicuramente si tratta di una delle sue frequenti iperboli, anche perché a Innocente i difetti non mancano: è difficile, per esempio, capire il senso della presenza di “Reggaeton“, feat. Baby K, nella tracklist. Ma è anche vero che il disco è un innegabile passo avanti in termini di produzione e di commistioni e di internazionalità, capace di trovare un difficile punto di equilibrio tra influenze latin e arab. Un equilibrio tanto più difficile da mantenere se si considera che alle nuove influenze si unisce una sorta di coerenza interna, di prosecuzione della sua “epica” personale: “Cella 4” è il pezzo esemplificativo, quarto capitolo della saga di Baby Gang.

Insomma, Innocente dà un’idea di quale sia oggi la percezione di Baby Gang nell’ambiente. Che questo sia l’inizio di una rinascita è ancora presto per dirlo, però: il rapper deve ancora scontare una condanna di quattro anni e dieci mesi. Ma la prova che Baby Gang sia un talento in grado di prendersi tutto è già arrivata.