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Autocapital

Fiat diventa un po' americana, un po' inglese e un po' olandese. È la globalizzazione dell'auto, bellezza. E porta la regina d'Inghilterra a viaggiare su macchine tedesche e fuoristrada indiani.

di Michele Masneri

Dunque la Fiat traslocherà, con sede legale nei Paesi Bassi e fiscale in Gran Bretagna, e già ironie anche su marchi e destini transatlantici; e però poche reminiscenze d’impossibili autarchie automobilistiche e invece di globalizzazioni favorevoli. E se la sede olandese sarà stata dettata da legislazioni propizie a noccioli duri, forse ci saranno anche antiche nostalgie, magari: Beatrice ex regina d’Olanda, testimonial delle monarchie in bicicletta, fu sempre molto invidiata dall’amico Gianni Agnelli, suo vicino di banco al Bilderberg e in altri club di cattivi molto esclusivi, in quanto affarista molto accorta e unica sovrana in proprio a saper fare soldi, a fronte di regine britanniche invece Jaguar e poi in spending review (però in Olanda si son sempre prodotte le auto più mostruose d’Europa, le famigerate Daf, bianchine di Fantozzi in colori pastello oggi forse hipster costruite ad Amsterdam per mano peraltro di un designer italiano, Giovanni Michelotti. Poi giustamente hanno smesso, e ora fanno solo i camion, comprati dalla svedese Volvo).

Mentre la Gran Bretagna vive senza inutili nostalgie il suo destino felice di esproprio automobilistico, con la fine di qualunque industria proprietaria fin dagli anni Ottanta, col fallimento della Fiat nazionale British Leyland e lo spezzatino di marchi gloriosi come Rover, Mini, Jaguar, Mg. E però, poi, un rifiorire di marchi e modelli che a fronte di sdegni estemporanei han funzionato e fatto assumere tanti operai: i tedeschi della Bmw si son comprati Rolls Royce e Mini, e forse per cuginanza almeno regale tra Inghilterra e Germania le sinergie han funzionato (notoriamente i Windsor hanno cominciato a chiamarsi così solo dalla Prima Guerra Mondiale, e il cugino tedesco con cui si combatteva, il Kaiser Guglielmo, con spirito, disse che sarebbe andato a teatro a vedere “Le allegre comari di Saxe-Coburgh-Gotha”); e se rapper e emiri burini di tutto il mondo continuano a desiderare le auto con la statuetta dello Spirit of Ecstasy sul cofano, e le olgettine insulari e continentali anelano a Mini in tutte le versioni, mentre proprietari terrieri e lord spesso possono permettersi solo Opel Meriva, saranno cambiati i target però i fatturati salgono.

Solo i tedeschi non vengono quasi mai invasi, automobilisticamente.

Solo i tedeschi non vengono quasi mai invasi, automobilisticamente: e se l’Auto del popolo Volkswagen già hitleriana insegna i modelli renani democratici oggi a tutti, la Bmw, Bayerische Motoren Werke (fabbrica bavarese di motori) rimane fortemente dinastica e local, appartenendo alla famiglia Quandt, anche se il suo stemma a scacchiera bianca e blu è poi quello Wittelsbach, dinastia ancora molto amata nei sondaggi grazie soprattutto ai testimonial Sissi e Ludwig II, un altro che subiva guerre dai cugini prussiani (mentre il barone von Opel non sarebbe per niente contento di come è finita la sua azienda, peso morto per General Motors che da anni tenta in tutti i modi di sopprimerla).

La regina Elisabetta invece come è noto scorrazza tranquilla abbattendo esseri viventi nei suoi castelli scozzesi a bordo dei suoi Defender, anche se questi ormai da anni sono di proprietà degli indiani Tata, che hanno comprato non solo Land Rover ma anche Jaguar, con alterni successi stilistici e però record di vendite (mentre i cinesi si son presi la Mg, e l’unica spider seria di fine secolo è stata notoriamente la Mazda Mx5, giapponese ma «più inglese delle inglesi»).

E se i Defender reali vengono risparmiati dai restyling, probabilmente solo finché la sovrana sarà in vita, la Range Rover, primo suv della storia moderna, viene strizzata in tutte le versioni intensive della brand extension, e declinazioni bonsai Evoque per middle class in crescita bresciane e cinesi che sognano Costa Smeralda e Engadina: e vendono tantissimo.

La Jaguar, anche lei rinata, seppur burinamente. Con una crisi metaforica pre-thatcheriana negli anni Ottanta, in un’Inghilterra dove la sera saltava la corrente, le auto fatte a Coventry erano famose per una affidabilità molto italiana («l’aria entra da tutte le parti tranne che dall’impianto d’aerazione», secondo narrazioni d’epoca di una rivista mitologica anni Ottanta, Autocapital), oltre che per la radica, il piping dei sedili e il cambio automatico a forma di J.

Venduta oltraggiosamente alla Ford e poi appunto agli indiani Tata (dinastia più antica di tanti blasoni europei, fondata nel 1868 con impianti minerari e diritti civili forse più che a Torino e Londra), subendo il ludibrio delle versioni diesel e station wagon, e infine adesso linee e spigoli vagamente coreani. Però bilanci in utile e maestranze (inglesi) contentissime.

Certo i matrimoni transatlantici sono i più difficili da sempre, come insegna Downton Abbey e come insegna il caso DaimlerChrysler; e però il Senatore Agnelli senior già andava in pellegrinaggio a Detroit, e il vecchio motto «ciò che va bene per la Fiat va bene per l’Italia» era un plagio da un presidente General Motors. E se Elisabetta, pur con esperienza Commonwealth, viaggia felice sulle sue Rolls Royce tedesche e sulle sue Land Rover indiane, forse non conterà poi molto se le Maserati Quattroporte in dotazione al Quirinale saranno quotate a New York e legali a Amsterdam.

Se Elisabetta viaggia felice sulle sue Rolls Royce tedesche e sulle sue Land Rover indiane, forse non conterà poi molto se le Maserati Quattroporte in dotazione al Quirinale saranno quotate a New York.

Magari non ci saranno più i portapipe di radica secondo personalizzazioni pre-casta dei tempi di Sandro Pertini, però nuovi modelli che si vendono. E piuttosto che un futuro rassegnato senz’auto e senza indotto, solo con programmi di riparazioni e nostalgie tipo Wheelers Dealers, con recupero di 128 e Alfasud e Fiat Regata in fienili di provincia, converrebbe invece attrezzarsi sfruttando anche un po’ di nostalgie e di archivi, come fanno tutti gli stilisti dabbene.

Qui, modesti suggerimenti: magari una Lancia Thema (però vera, non quella offensiva Chrysler) e una Fiat 164 per lupi di Wall Street cinesi e brianzoli, oltre che nostalgici craxiani; e perché no anche con motore Ferrari come la celebre 8.32; oppure per altre latitudini una Alfa Arna ibrida simil Prius per classi medie americane alla Franzen; e perché no, subito una nuova Fiat Campagnola per Brics sudamericani ma anche no-tav duri e puri (già papamobile spigolosa, si potrebbe ripristinare coinvolgendo subito papa Francesco, non insensibile al vintage automobilistico, con vasto uso di Renault 4 euro zero forse illegali dentro e fuori il Vaticano).
 

Nell’immagine: Alcuni giornalisti alla presentazione della Fiat 500, 29 luglio 1957.(Edward Miller/Keystone/Hulton Archive/Getty Images)