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Perché si sta di nuovo parlando di Armie Hammer

Dopo due anni di silenzio, l'attore è tornato a parlare in un'intervista a Air Mail, ultimo capitolo di una storia tra le più assurde del #MeToo.

di Francesco Gerardi

Per tutta la sua vita Armie Hammer ha coltivato il sogno di essere un attore famoso, proprio come il suo idolo Robert Downey Jr. Se non fosse stato per la curiosa – per usare un eufemismo – traiettoria presa dalla sua carriera prima e dalla sua vita poi, probabilmente non ci sarebbe mai riuscito: Hollywood è piena di bellocci biondi, con gli occhi azzurri, alti come palazzi e muscolosi come olimpionici. Ma quanti nutrono anche fantasie di schiavizzazione del prossimo? E quanti costruiscono scenari immaginari fatti di stupri, pestaggi, mutilazioni, cannibalismo e vampirismo clinico? E quanti, almeno in parte, quegli scenari immaginari poi fanno di tutto per trasformali in situazioni reali? Nella mia memoria ce n’è soltanto uno: Armie Hammer. Famoso come nessuno.

In questo fine settimana si è parlato moltissimo di un’intervista realizzata da Air Mail all’ormai ex attore – lui stesso parla del sua carriera hollywoodiana usando sempre l’imperfetto o il passato remoto, senza perdere mai l’occasione di ribadire che è sia «al verde» che «indebitato fino al collo» – intitolato “Armie Hammer breaks his silence”. Era dal 2021, infatti, che Hammer non concedeva una dichiarazione pubblica (perché abbia deciso di farlo proprio ora, perché a Air Mail, perché con James Kirchick è cosa che si sta discutendo molto sui social). Da quando, a suo dire, «la cancel culture, l’orda woke» lo avevano costretto a fuggire alle isole Cayman per ritrovare la versione di se stesso che gli anni di Hollywood avevano sotterrato con strati e strati di sesso, droghe e alcol. Pare che ci sia riuscito: «Ora sono una persona sana, felice, equilibrata». Si è spiegato le sue devianze con la violenza sessuale subita da un pastore protestante quando aveva 13 anni, momento in cui per lui il sesso è diventato una questione di controllo negato e da riprendere. Ha tentato il suicidio, voleva annegarsi in mare, ma poi si è ricordato che sulla spiaggia lo aspettavano i figli. Finalmente è pronto ad ammettere i suoi errori, dice. Che, in sostanza, nella versione dei fatti fornita da Hammer ammontano tutti a essere stato «uno stronzo». Cosa che, si premura di precisare, non costituisce reato in nessun codice di procedura penale del mondo.

Se non fosse per i salaci dettagli lasciati da Hammer nei dm di diverse donne su Instagram, la sua storia sarebbe soltanto l’ennesima storia dell’era del #MeToo. “He said, she said”, dicono in inglese: la mia parola contro la sua. Nel marzo del 2021 una ragazza divenuta nota alle cronache con il nome di Effie – da House of Effie, la pagina Instagram dalla quale aveva inizialmente mosso le prime accuse nei confronti di Hammer – aveva raccontato di essere stata violentata dall’attore, con il quale intratteneva da quattro anni una relazione, cominciata nel 2016 con una chiacchierata su Facebook. La denuncia di Effie è stato il momento in cui la “storia di Armie Hammer” è passata da barzelletta dell’Internet a racconto dell’orrore a cronaca giudiziaria: in seguito alle rivelazioni delle ragazza, la polizia di Los Angeles aveva cominciato un’indagine sui fatti che si è conclusa però nove mesi dopo con l’archiviazione. Sin dall’inizio le autorità losangeline avevano definito l’indagine come «non solidissima»: he said, she said, appunto, lei dice stupro, lui dice rapporto consensuale. In assenza di indizi solidi e numerosi abbastanza da essere portati in un’aula di tribunale, è successo quello che in questi casi succede sempre: la decisione è stata rimandata al tribunale dell’opinione pubblica. Che aveva già deciso la colpevolezza di Hammer. Il suo cannibalismo – «sono un cannibale al 100 per cento», scriveva sempre su Instagram, discettando di cosa gli sarebbe piaciuto assaggiare di più, una costola o un cervello umano – per esempio, è diventato una certezza, una che dura ancora oggi: nel 2022, nel tour promozionale di Bones and All, Luca Guadagnino si è trovato più volte costretto a smentire che il film fosse basato almeno in parte sulla storia di Hammer.

È dopo la denuncia di Effie che la cosa smette di essere divertente e il flusso dei meme si interrompe. Molti iniziano a studiare i messaggi di Hammer parola per parola, per restituire il ritratto di un manipolatore come tanti reso pericoloso dalla sua passione per il Bdsm. O meglio: dal suo fraintendimento del Bdsm. Nelle sue fantasie – e, stando ai racconti di Effie, anche nelle sue pratiche – Hammer concepisce una versione del Bdsm basata sul controllo del prossimo e non della situazione, sulla costrizione e non sul consenso, sul rischio e non sulla sicurezza. In un post Instagram poi cancellato, una delle donne che hanno accusato Hammer scriveva che «la roba kinky non comprende fantasie omicide o giochi pericolosi con i coltelli (come metterne uno tra le gambe di una donna durante il sesso)». Quando lo sprezzo del pericolo dell’attore diventa fatto accertato, la cancellazione diventa effettiva. Non che ce ne sia poi granché bisogno: Hammer a questo punto è già alle Cayman e girano foto della sua nuova vita da venditore d’auto in un concessionario.

La discussione sulla sua storia però non finisce. Vengono riscoperti profili in cui a posteriori tutti si sforzano di trovare gli indizi di quello che sarebbe successo. Moltissimi scoprono per la prima volta un ritratto scritto da Anne Helen Petersen – forse la migliore celebrity profiler americana – nel 2017 per Buzzfeed, intitolato “Ten Long Years of Tryng to Make Armie Hammer Happen”, racconta di come Hollywood avesse insistito su di lui fino a Chiamami col tuo nome, primo vero successo arrivato dopo un decennio di fallimenti. Perché, si chiede Petersen. Perché Hammer è l’archetipo di bellezza americana bianca. Perché è l’erede di un impero petrolifero. Perché è un nepo baby, anche se all’epoca non avevamo ancora trovato queste parole. «Il tuo punto di vista è rancoroso come la merda», le aveva risposto lui su Twitter.

Un altro profilo, pubblicato su Vanity Fair e dedicato alla famiglia Hammer, diventa per tante persone la spiegazione della difficoltà di Armie ad accettare i no. Il suo bisnonno Armand – da cui prende il nome, diminuito in Armie – era il fondatore della Occidental Petroleum, undicesima azienda petrolifera americana, e aveva avuto stretti rapporti con ogni incarnazione di potere dei suoi tempi: Lenin, Stalin, Nixon, la corona d’Inghilterra. Ma soprattutto, ad Armand Sr. piaceva umiliare e picchiare sua moglie, costringerla a indossare parrucche e occhiali. Aveva fatto installare un dispositivo di tracciamento nella macchina di lei e intercettava tutte le sue telefonate. Il figlio Julian, a 26 anni, aveva ucciso un uomo che pretendeva gli venisse restituita una grossa somma che il rampollo aveva perso in una bisca. La figlia di Julian, Casey, lo aveva accusato di averla violentata. Michael, il padre di Armie, passava il suo tempo sperperando il patrimonio di famiglia tra affari sbagliati, divertendosi alle feste e scaricando la rabbia repressa picchiando la moglie. La storia della dinastia Hammer diventa oggetto di un documentario in tre puntate su Discovery, intitolato House of Hammer. A questo punto, però, la discussione si ferma: nessuno è davvero disposto a spostare il dibattito dalla cancellazione di un attore ai mali che si ereditano col sangue, alla brutalità insegnata in famiglia.

L’intervista di Air Mail questa discussione la riprende, ma nel modo in cui la conversazione con Hammer è stata concepita e spiegata si intuisce un cambiamento. Se non nelle opinioni, quanto meno negli atteggiamenti. Due anni fa – pochi ma tanti, lo sappiamo che in quest’epoca funziona così – fornire uno spazio pubblico a un “cancellato” sarebbe stato fiancheggiamento. Ora, nel vibe shift che sta indubbiamente attraversando la cultura americana, emerge una necessità nuova: andare oltre la pretesa di contrizione del cancellato, oltre il desiderio di punizione dello stesso. Oltre la cancellazione: «Per una versione più completa, dettagliata e verificata di quel che succede», come hanno dichiarato i fondatori di Air Mail Graydon Carter e Alessandra Stanley. Forse è questo l’unico modo di trattare i casi in cui è la parola della vittima contro la parola del carnefice. Sforzarsi di ascoltare anche le parole del carnefice. Anche quando si tratta di un cannibale.