Attualità

Animal Collective, una storia

A Milano, al concerto di apertura di C2C, le icone dell'indie alternative degli anni Zero. Un ritratto di gruppo.

di Francesco Abazia

Se negli ultimi giorni dello scorso novembre vi foste trovati di passaggio al Baltimore-Washington International Airport, sareste stati tra i fortunati ad aver ascoltato in anteprima mondiale “FloriDada”, primo estratto dall’ultimo album degli Animal Collective, che giovedì 7 aprile si esibiranno ai Magazzini Generali di Milano nell’ambito del festival Club To Club. La notizia ha fato il giro dei siti di informazione musicale, per rimbalzare via Instagram ed essere poi confermata da Avey Tare, al secolo David Portner, membro fondatore del collettivo che proprio da Baltimora, vent’anni fa, ha cominciato la sua carriera discografica.

Painting With, uscito lo scorso febbraio, è il decimo album di una delle meno inquadrabili band rock degli ultimi anni. È già sbagliato chiamarli band, per dire. Sono un collettivo, che ha scelto l’appellativo di “Animal” per ragioni tutto sommato divertenti («Perché Animal? Perché è l’unica parola ad avere una remota connessione con quello che era il nostro suono e poi, certo, perché amiamo i nostri amici animali»). La loro formazione è variabile, si va dai due membri ( Noah “Panda Bear” Lennox e Avey Tare) dell’esordio di Spirit They’re Gone, Spirit They’ve Vanished, ai tre (con l’aggiunta di Brian “Geologist” Weitz, l’unico che non ha mai cantato) dell’ultimo album e del loro disco di maggior successo Merriweather Post Pavillon, passando per una serie di fortunate release, Sung Tongs, a formazione completa e comprendente Josh “Deakin” Dibb, che non ha potuto prendere parte alla produzione di Painting With perché impegnato dal suo esordio da solista che ha visto la luce proprio in questi giorni, dopo una campagna Kickstarter conclusasi sette anni fa.

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Si è sempre fatto un gran parlare degli Animal Collective, di quel gruppo di amici che  del liceo che non litigano per forza come tante rock band, che ha saputo reggere l’urto di diventare grandi (umanamente prima che artisticamente) seppur non del tutto, conservando quel briciolo, o forse qualcosa in più, di strafottenza hippie. In una recensione di qualche mese fa sul Guardian, Alexis Petridis manifesta il dilemma: sono i tipi che si ostinano a credere che i ’60 non siano mai finiti, o dei pionieri del suono capaci di ricreare una pastorale psichedelica del Ventunesimo secolo? La sua soluzione è «so and so», una cosa non deve rigettare per forza l’altra anche se poi dalle loro interviste la prima teoria sembra essere sconfessata. Una volta hanno detto «sappiamo che far musica psichedelica (per quanto non abbiamo ancora capito cosa voglia dire) ci espone al rischio di essere considerati “trippy”, ma non vogliamo che la nostra diventi il tipo di musica che ti ascolti quando sei fatto di acidi». Uno stile musicale inoltre, che seppur difficilmente classificabile, ha preso a essere molto riconoscibile. Panda Bear una volta disse che il loro suono non doveva essere per forza di tutti, ma doveva essere loro. Un suono polarizzante quindi che avrebbe trasmesso la cifra di cosa fossero gli Animal Collective.

A dire il vero le cose un po’ cambiano in Painting With, le tracce mutano, diventando più brevi, più Ramones, un «concentrato di energia canalizzata in una maniera ben precisa», un album più immediato, più spontaneo. Fa almeno sorridere che invece questo sia l’unico album che hanno realizzato, o almeno concepito, a distanza, ora che Panda Bear vive a Lisbona, Tare a Los Angels, Geologist a Washington e Deakin a Baltimora. Poi certo, si sono incontrati e la realizzazione è durata molto poco, dopo essere stata molto chiacchierata. Hanno raccontato a Pitchfork di aver «parlato con gli uomini delle caverne prima di entrare in studio» e, una volta lì, hanno richiesto una piccola piscinetta gonfiabile e proiettato continui visual dei dinosauri, oltre che passato diverso tempo a discutere di quale fosse il migliore, tra i dinosauri. Il disco che ne è venuto fuori è il più “pop” che abbiano mai realizzato, quello in cui, più di tutti gli altri, si avverte l’influenza dei Beatles di «tutta la carriera, non c’è un momento specifico».

La formazione fluida, i loro massicci spostamenti, le carriere da solisti intraprese ancora prima che fossero effettivamente realtà sono alcuni dei principali snodi attorno a cui la gira la loro storia. Nel 2010 si presentarono al Sundace Film Festival  con ODDSAC, un girato di circa 50 minuti diretto da Danny Perez che avrebbe dovuto rappresentare «quello che la gente immaginerebbe chiudendo gli occhi e ascoltando la musica degli AC». Le reazioni furono meno entusiaste forse di quello che il gruppo si sarebbe aspettate. In un sub-reddit interamente dedicato agli AC, lo scorso anno si leggeva ancora di gente spaventata dalla stranezza del girato. Che tuttavia ben si identifica (anche in quanto “visual album”) con l’idea totalizzante di arte che i AC hanno cercato di sviluppare in tutta la loro carriera.

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La visualizzazione della propria musica è sempre stata una loro prerogativa. La sorella di Avey Tare, Abby Portner è stata per tantissimi anni la mente dietro artwork, visual on stage e campagne promozionali del collettivo. In alcuni suoi schizzi si ritrovano esattamente i concept dietro le cover di Centipede Hz, il disco tribale degli AC. Si sono serviti invece del lavoro di illusione ottica motoria dello psicologo Akiyoshi Kitaoka per realizzare l’iconica cover di Merriwheter (rifinita poi da  Robert Carmichael). L’ultimo esempio sta nelle tre cover che hanno accompagnato Painting With, e nell’innovativo lancio del secondo singolo del disco  “Lying in the Grass”, che si poteva ascoltare solo utilizzando la loro app che permetteva di disegnare cose completamente a caso su una tela a schermo dell’iPhone.

Quelle installazioni le ritroviamo anche nei loro ultimi live (qui quello a Portsmouth di febbraio), che sono poi la dimensione dove meglio funzionano, ora che vanno in tour in tre, anche se al nuovo album ha contribuito anche Colin Stetson, polistrumentista che ha collaborato un po’ con tutto il mondo del rock. L’immaginario di una esibizione degli AC di oggi si discosta da quello di ODDSAC, si veste di una psichedelia meno inquietante. Come se il tempo si fosse fermato per quei quattro ragazzi che avevano cominciato a far musica nella cameretta di Josh Dibb a Baltimora, in quella Baltimora bianca e medio-borghese che così poco ci ricorda quella cattiva di The Wire. Si trovano cresciuti, dopo aver messo su famiglia, e sono diventati storia del rock sperimentale di questa generazione. C’è però ancora tempo e spazio per guardare tutti insieme un film in streaming sul portatile di qualcuno, discutere di dinosauri e mettere i piedi a mollo in una piscina di plastica gonfiabile.

 

Programma Club To Club di Giovedì 7 aprile, Magazzini Generali (Milano)
21.30 GFOTY
22.30 ANIMAL COLLECTIVE
00.00 MIKAEL SEIFU
01.00 DJ MARFOX
02.00 DJ NIGGA FOX
03.00 LOTIC