Cultura | Architettura

Alfredo Brillembourg e la fine dell’architettura utopica

In occasione della Arch Week a Milano, una conversazione con l'urbanista sudamericano sulle periferie e il futuro delle città.

di Manuel Orazi

La Torre de David a Caracas dopo il terremoto dell'agosto 2018. Foto di FEDERICO PARRA/AFP/Getty Images

Oltre all’Arch Week della Triennale, a Milano apre domani anche About a City alla Fondazione Feltrinelli, manifestazioni sorelle e coordinate di incontri e lezioni a sfondo architettonico e urbanistico con qualche differenza. Se nell’Arch Week prevalgono gli architetti, ad About a City 2019 – Rethinking Cities il programma è più eterogeneo e coinvolge anche le associazioni di cittadini, le imprese e le istituzioni governative in alcuni tavoli, oltre ad alcune lezioni di sociologi o scrittori come Suketu Mehta, l’autore di Maximum City e La vita segreta delle città, che fa il pendolare fra New York e Mumbai. L’orizzonte è ancora quello del rammendo delle periferie, ma più articolato, contro le disuguaglianze nei territori abitati, le innovazioni politiche necessarie e la promozione delle competenze degli abitanti – praticamente un manifesto contro il governo giallo-verde.

La lezione di apertura alla Feltrinelli è quella di un urbanista sudamericano: Alfredo Brillembourg, di origini venezuelane, è docente in due fra le più importanti università di architettura del pianeta (la Columbia di New York e l’ETH di Zurigo), si occupa di periferie e urbanistica informale attraverso il suo gruppo Urban Think-Tank, che dirige insieme a Hubert Klumpner. L’analisi della Torre David di Caracas, una sorta di favela verticale per 28 dei suoi 45 piani lasciati incompiuti da un’impresa che apparteneva a suo zio, David Brillembourg, deceduto tragicamente nel 1993, è stata esposta più volte alla Biennale di Venezia. L’intervento di domani invece si intitola “Making Urban Utopias (from Peripheries)”.

Lei cita spesso Yona Friedman e le sue Utopie realizzabili come modello, oggi più letto e studiato dagli artisti che dagli architetti, come mai?

Yona è sempre stato una fonte di ispirazione per noi, lo abbiamo conosciuto alla Documenta di Kassel nel 2002 grazie a Catherine David e poi ci ha anche mandato dei disegni per la Torre David… È importante perché dimostra che l’architettura non deve essere più quella dei grandi progetti utopici degli anni ’60, gli anni delle megastrutture o dei sogni di Superstudio, no. Oggi solo ciò che è interessante è possibile, Yona e altri allora svilupparono una critica importante dell’architettura tradizionale e indicarono il modello, per noi fondamentale, dell’architetto inteso non più come un grande autore di disegni visionari, ma come un mediatore, una figura in grado di correlarsi sia con chi è in basso sia con chi è in alto. Il tempo degli architetti carismatici come nel Rinascimento è davvero finito, oggi abbiamo bisogno di un ruolo che abbia maggiore legittimazione sociale se vogliamo cambiare le cose.

Con il suo studio lei ha concepito dei progetti sperimentali come il gimnasio vertical (una palestra su più livelli con attrezzature sportive diverse), che volevano essere progetti di opposizione al regime chavista anche se poi questo ha cercato di farli propri, strumentalizzandoli. Come si sente a riguardo?

A Caracas per la società che gestisce la funivia urbana, Metro cable, avevamo pensato di implementare una stazione dotandola di un mercato, una biblioteca e un gimnasio vertical, ma la società non ci ha permesso di fare la supervisione del lavoro. Poi nel 2010 ci siamo trasferiti a New York e abbiamo fatto altro, ma nonostante l’inizio delle proteste contro il regime – o forse grazie a queste – il progetto è stato più o meno portato a termine da altri e la mia reazione è stata “non importa”. In questo senso sono un opportunista, se un progetto è valido e viene realizzato, non cambio idea solo perché non l’ho firmato io.

Molta architettura mainstream dei grandi studi internazionali è gestita a distanza, con il grande autore che dall’Europa, dagli USA o dal Giappone supervisiona un cantiere andandoci all’inizio e poi all’inaugurazione, ma nel caso dell’architettura impegnata nelle periferie e nei paesi più svantaggiati la presenza sul posto direi che è indispensabile, come riesce allora a barcamenarsi fra l’Europa e i siti dei suoi progetti?

Oggi ci sono molti modi per impostare il lavoro. Noi ad esempio lavoriamo sempre con una Ong che è stabilmente sul terreno del progetto, organizzando il lavoro con la comunità autoctona. Poi io stringo sempre un accordo con un architetto locale che resta il responsabile degli esecutivi, mentre noi possiamo spedirgli continuamente disegni più concettuali da New York, Zurigo o dal Brasile. Per fare un esempio, nel nostro ultimo progetto in Sud Africa, a Città del Capo, nel team di progettazione allargato che abbiamo messo insieme, su quaranta persone solo due non erano sudafricane. Se l’architetto rinuncia alla sua prerogativa autoriale e adotta il modello collaborativo, allora oggi può tornare a fare grandi cose e su vasta scala.