Cultura | Letteratura

Sfigati, ricchi e impostori: intervista ad Alessandro Piperno

Abbiamo parlato con lo scrittore del suo nuovo romanzo, Di chi è la colpa.

di Giovanni Robertini

Sono l’impostura e la perdita dell’innocenza a muovere il protagonista senza nome per le 444 pagine di questo bel romanzo, che parte dalla nascita in una famiglia mononucleare e disfunzionale, misteriosamente senza passato e con molte difficoltà a tirare a campare, e arriva – come conseguenza di un fatto di sangue dove non si sa “di chi è la colpa” – a un’altra famiglia, ricca ed ebraicamente larger than life, in cui sarà costretto a fingere di essere chi non è. Di impostura, classi sociali, colpe private e politiche, Steve Lukether e Virginia Raggi, parla Alessandro Piperno in questa intervista.

ⓢ Il protagonista del romanzo da ragazzo suona la chitarra, perché è una passione ereditata dal padre e perché «niente è adatto alla vita solitaria e a un’indole precocemente ossessiva quanto lo studio di uno strumento a corde». Perché proprio lo strumento a corde?
Parlando di un romanzo è sempre spiacevole (almeno per me) chiamare sul banco dei testimoni il nucleo palpitante della propria autobiografia. Ma temo che la domanda non mi lasci alternative se non vuotare il sacco. Ho trascorso una discreta parte della mia adolescenza con una chitarra in mano. Il mio immaginario era letteralmente stipato di Guitar Hero che con il senno di poi non stento a definire tamarro. La cosa buffa è che si chiamavano tutti Steve: Steve Vai, Stevie Ray Vaughan e soprattutto Steve Lukether (il mio eroe). La patetica abnegazione con cui provavo a emularli, in modo a dir poco maldestro, avrebbe meritato ben altri esiti, ma purtroppo i sogni di gloria si sono presto infranti contro la mancanza di talento e un look ridicolmente inadeguato. Ho scelto di attribuire la medesima passione al mio eroe perché sapevo di poter raccontare il senso di alienazione che imprigiona il virtuoso. Diciamo che gli strumenti a corde, pensi al violino o al contrabbasso, rendono l’applicazione quotidiana e ossessiva particolarmente dolorosa, in certi giorni, persino sanguinolenta.

ⓢ L’immergersi nella scrittura è paragonabile allo studio di uno strumento a corde?
Niente mi fa pensare allo sforzo e al godimento di scrivere come i calli che deturpano i polpastrelli del chitarrista.

ⓢ Ci sono due temi ricorrenti in tutti i suoi libri: l’innocenza e la sua perdita, e l’impostura. C’è qualcosa che lega l’impostura del protagonista alla consuetudine contemporanea che si manifesta nel modo in cui molti si rappresentano sui social?
Se mi permette un auto-elogio, sono contento dell’equilibrio con cui stavolta sono riuscito a mescolare i miei temi. Non è stato facile. L’equilibrio – che poi non è altro che una forma di eleganza – richiede un labor limae estenuante. Il tema dell’impostura che attraversa un po’ tutta la mia produzione narrativa, saggistica e accademica ha trovato in questo romanzo una forma icastica di cui sono francamente soddisfatto. Ciò detto, lei ha ragione. Non ci vuole un sociologo per rilevare come ciascuno di noi ha la necessità di mettere in scena la propria vita in una forma fin troppo benevola e parecchio eufemistica. Non sono sui social ma le confesso che li compulso avidamente con lo spirito del parassita e del voyeur. Lo spettacolo della miseria umana, del narcisismo sboccato è il mio cibo quotidiano. C’è qualcosa di artistico – arte povera, certo, puro kitsch – nel modo in cui la gente ama rappresentarsi su Facebook o su Instagram. Sono tutti lì alle prese con piatti squisiti, panorami mozzafiato o nature morte composte da libri amati e mazzi floreali. Parafrasando una nota frase di Fitzgerald, i social ti danno l’illusione che la vita sia una faccenda romantica.ⓢ C’è un’immagine che mi ha colpito, quel «piangere a cazzo ritto» che avviene durante l’evento drammatico del romanzo, aumentandone la drammaticità. Anche questo fa parte del processo d’impostura?
Estrapolata dal contesto la frase può apparire un po’ troppo triviale, almeno per i miei gusti pudichi. Del resto, essere tristi e arrapati è una condizione che qualsiasi adolescente conosce fin troppo bene. Venendo alla sua domanda, direi di sì. Molto spesso le persone (e il mio narratore si sforza di esserlo) si trovano nella spiacevole situazione di dover affrontare circostanze a dir poco contraddittorie. È quello il momento in cui ci si scopre spaccati in due, come un impostore appunto.

ⓢ Lei ha detto, in un’intervista a Radio Tre, che il titolo Di chi è la colpa ha anche un valore politico. C’è un esempio che mi può fare di come la ricerca del colpevole sia una caratteristica dell’oggi?
Le ultime elezioni del 2018 hanno premiato due forze politiche – i Cinque Stelle e la Lega – la cui propaganda elettorale consisteva nel dire alla gente: non è colpa tua, la colpa è di tutti gli altri. Vota per noi che siamo come te: persone perbene, innocenti turlupinati dai poteri forti. In una nemesi è bastato poco a costoro per diventare l’oggetto del risentimento pubblico. Anche a me capita di dare la colpa all’esecrabile Raggi del dissesto in cui versa la mia adorata città. Una bastardata: non credo, infatti, che la signora Raggi sia personalmente responsabile delle buche sotto casa mia. Come vede, tutti possono cascarci.

ⓢ Il padre irresponsabile e cialtrone è  un punto di riferimento importante nella vita del protagonista. Mi vengono in mente i rapper di successo di oggi, che parlano di padri scappati di casa o in galera, senza rancore, anzi spesso idolatrandoli.
Stento a immaginare qualcuno più diverso da me e dal mio protagonista di un rapper. E temo che il rapper in questione sottoscriverebbe le mie perplessità. E tuttavia anche stavolta non riesco a darle torto. Dal mio comodo nido borghese ho un occhio particolarmente indulgente, quasi partecipe, nei confronti dei fannulloni, dei falliti, degli indebitati cronici.

ⓢ Ci sono parenti poveri e parenti ricchi nel libro. Quanto oggi la classe sociale è ancora determinante nella creazione di un’identità (anche un’identità degli affetti)?
La solvibilità definisce un essere umano più della cultura. E mica solo oggi, in questa società iper-capitalistica. È dai tempi del baratto che le cose stanno così. Poter comprare quello che ti pare è un privilegio meraviglioso che ahimè conoscono in pochi. Una suite affacciata sul mare, un natante milionario, un auto sportiva, un orologio di marca offrono diversivi e opportunità di cui tutti dovrebbero godere ogni tanto. Non a caso, quando il mio narratore scopre i vantaggi della ricchezza scopre anche di non poterne più fare a meno.

ⓢ A questo proposito, lei così descrive i nuovi compagni di scuola del protagonista senza nome: «Eccoli là, sono sempre loro, eterni come le malattie: la bella della classe, il fico indolente, il nerd con la camicia chiazzata di sudore, il prof collerico, i compagni della Fgci, Ippolito Nievo, La ragazza di Bube». Siamo davvero sempre così socialmente determinati? E oggi al posto dei compagni della Fgci chi ci sarebbe?
Quando i sociologi parlano di mutamenti antropologici mi viene sempre da storcere il labbro. Credo che si tratti di mutamenti superficiali e caduchi. L’uomo che raccontava Montaigne nel Rinascimento è lo stesso che oggi si perde negli incanti del suo smartphone. Al posto del compagno della Fgci, c’è l’ambientalista perbene che sogna un mondo senza combustibili. Temo che i suoi desideri non siano meno utopistici di quelli coltivati dai miei amici che auspicavano una società senza classi. E lo dico senza alcun giudizio di merito.

«Il sospetto di essere nati nel momento e nel posto sbagliati», come accade al suo personaggio, è una condanna definitiva o può muovere un riscatto? E nel caso, che tipo di riscatto?
C’è una forma di poesia nella grande illusione capitalistica cui, le confesso, non sono del tutto insensibile. Il desiderio di farcela e di distinguersi, la smania di somigliare alle persone che ammiriamo è una droga potentissima.

ⓢ Lei dove e in che momento avrebbe voluto nascere?
Non ho dubbi: mi vorrei svegliare in un racconto di John Cheever. Ho un debole per l’America di Eisenhower.