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Alejandro Zambra, la poesia, i romanzi e il Sudamerica

Una conversazione con l'autore definito dal New Yorker «la nuova stella della letteratura sudamericana» in occasione dell'uscita del suo romanzo Poeta cileno, appena pubblicato da Sellerio.

di Marco De Laurentis

Immagine tratta dal profilo Instagram dell'autore

Con l’uscita nel 2015 de I miei documenti, Alejandro Zambra è diventato uno scrittore di fama internazionale. Un successo tale da ricevere elogi sul New Yorker, che lo aveva definito «nuova stella della letteratura sudamericana». Dopo essersi trasferito da Santiago a Città del Messico, essere diventato padre e aver partecipato alla sceneggiatura del film Family Life, basato su un suo racconto, lo scrittore classe 1975 torna in libreria con un nuovo romanzo: Poeta cileno (Sellerio, traduzione di Maria Nicola). Un romanzo lungo, il più ampio della sua produzione, dove Zambra descrive la sua antica vocazione, la poesia appunto, e due comunità, una famiglia comune e una famiglia “letteraria”.

I due poeti protagonisti sono Gonzalo e Vicente, rispettivamente patrigno e figliastro, che cercano di trovare uno spazio all’interno della scena letteraria cilena, in periodi diversi fra loro (il primo negli anni Novanta, l’altro nei giorni nostri). Come nei suoi libri precedenti, Zambra sembra interrogarsi sui vari significati della mascolinità, della famiglia, e il fulcro del libro ruota proprio attorno al rapporto intenso tra un padre e un figlio oltre il legame biologico. A fare da cornice c’è poi l’altra “famiglia” rappresentata nel libro, quella letteraria, formata dai vari poeti cileni, una comunità che l’autore omaggia alla sua maniera, con un misto di umorismo e tenerezza.

Ovviamente in questa cornice di poeti non possiamo non trovare sfumature bolañiane (lo scrittore argentino Rodrigo Fresán ha ribattezzato Poeta cilenoI Detectives domestici”). Forse Zambra è lo scrittore latinoamericano che ha meglio assimilato la poetica di Bolaño, senza però scadere in facili epigonismi o caricature. Zambra infatti sembra interessato più all’aspetto quotidiano della vita del poeta («quello che vuole è il ritratto casuale della vita quotidiana», citando un passaggio del libro) e il suo stile si adegua di conseguenza.

Ma il denominatore comune rimane la poesia, vista come spazio privato e collettivo e strumento di comunicazione tra le varie generazioni, che gioca un ruolo per certi versi simile a quanto visto recentemente in Topeka School di Ben Lerner, altro romanzo di formazione di un poeta. Lo abbiamo così intervistato per comprendere meglio cosa voglia dire davvero essere poeti in una terra letteraria come il Cile.

In Poeta cileno c’è una profonda riflessione tra un patrigno e il suo figliastro, tema poco esplorato nella narrativa contemporanea. Il fatto di essere diventato padre ha inciso nella scrittura del tuo romanzo?
È un romanzo sul Cile che ho scritto in Messico e anche un romanzo su un patrigno che ho scritto quando stavo per diventare padre biologico. L’ho scritto durante i primi due anni di vita di mio figlio. Penso che la felicità si mostri nel libro, in un certo senso, sebbene sia anche un libro molto triste. Comunque. Prima scrivevo la domenica, poi scrivevo a tarda notte, questo romanzo invece l’ho scritto la mattina, in una stanza due per due, senza internet, che ho sul tetto. Mi svegliavo verso le cinque o le sei o l’ora in cui mio figlio si svegliava, stavo con lui un paio d’ore prima di salire in camera, scrivevo fino alle due del pomeriggio e il resto della giornata rimanevo con lui. Ad un certo punto ho iniziato a chiamare quella stanzetta Cile, quindi tecnicamente potrei dire di aver scritto il romanzo in Cile.

I tuoi romanzi sono di solito molto brevi. Questo invece supera le 400 pagine. E’ cambiato qualcosa nella tua scrittura?
È uscito fuori così, semplicemente. Volevo rendere presente e visibile un paesaggio e un linguaggio che sentivo lontano e assente, e forse quel desiderio mi ha fatto sentire che questo sarebbe stato un libro più lungo di altri miei libri. È anche un romanzo sull’accumulo, la duplicazione e il ritmo imperfetto del quotidiano, oltre al fatto che l’azione si svolge nell’arco di vent’anni, quindi il mio sentimento era più “romantico” di altre volte, ma non pensavo che il romanzo sarebbe stato così lungo. Chiedo scusa, era molto più elegante pubblicare libri brevi…

Il tema centrale del romanzo sembra essere la ricerca di appartenenza tra una famiglia comune e una famiglia “letteraria”. Da dove deriva questo senso di comunità, questa ricerca di trovare il proprio posto nel mondo?
Ultimamente ho pensato più volte che in letteratura il tema principale è sempre l’appartenenza. È l’unico tema inevitabile. Non è che tu decida di parlarne, ma piuttosto il fatto che tutti noi potremmo raccontare una qualsiasi storia sulle tensioni dell’appartenenza, sulle comunità a cui appartenevamo o volevamo appartenere. Come ci relazioniamo con la prima persona plurale o alla prima singolare. C’è sempre una tensione tra l’io e il noi. Dall’interno e dall’esterno. E subito siamo la coppia, la famiglia, il vicinato, il paese, il mondo. Tutte le storie ne parlano o si possono leggere a partire da lì. Queste sono cose che mi interessano nella vita e son contento si noti questo nel romanzo. Mi interessa molto quel territorio, quei confronti, quegli attriti generazionali, le discussioni che mettono in dubbio i limiti tra il dentro e il fuori. Raccogliere le nostre idee mutevoli sulla paternità, sulla genitorialità, sulla comunità, sulla mascolinità. Le nostre idee sulla felicità, sull’identità, sulla tenerezza. C’è una scena molto secondaria nel mio romanzo in cui due poeti discutono sulla parola tenerezza: se è una parola brutta o bella, se può apparire o meno in una poesia, e così via. Sono molto interessato a quella discussione, allo stesso modo in cui sono interessato a tutte le discussioni che mettiamo di solito da parte perché suonano come stupide, di auto-aiuto, questioni che sono state a lungo elaborate e superate. La mia sensazione generale è che si debba cercare di capire e discutere tutto da capo.


Nel libro troviamo un narratore molto particolare, che prova compassione per i personaggi, appare e scompare.
Beh, scrivere questo romanzo è stato scoprire o coltivare una voce, quella voce. Penso che il Poeta cileno sia un libro ben “commentato”. Amo quei momenti in cui i personaggi sono come estranei di cui vuoi continuare ad ascoltare la voce e poi non c’è altra scelta che inventare le frasi che dicono. È come quando provi a tenerti un amico e gli riempi il bicchiere in modo che non se ne vada. C’è molta gioia lì. Il narratore è una specie di anfitrione che interviene poco. A volte vuole solo che gli ospiti entrino e parlino, ma all’improvviso entra o si intromette e poi scopriamo che è pettegolo, premuroso, meschino, generoso, a volte spietato… Non vuole essere un comico distante dal palco. Vuole raccontare le barzellette e anche ridere. Oppure non ridere, ma essere quello che conta e quello che ascolta. Trascende il sentimento del soliloquio.

La storia di Gonzalo e Vicente si svolge nell’arco di diversi anni l’uno dall’altro. Ne viene fuori un’analisi generazionale, dal Cile dagli anni ’90 a quello di oggi. Cosa è cambiato in Cile sia da un punto di vista letterario che sociale-politico?
Credo che le nuove generazioni abbiano cambiato la scala del possibile, l’epidemia lo dimostra ampiamente. Ci sono figli che affrontano i loro genitori per quello che non hanno fatto e ci sono anche figli che hanno visto i loro genitori e i loro nonni infelici e hanno deciso di difenderli e questo è molto bello dal mio punto di vista. Ho visto questo striscione ripetuto tante volte, a novembre 2019, l’ultima volta che sono stato in Cile: questo è per te, mamma o nonna o papà. Molte persone sono stanche di raccontare ai propri figli la favola della felicità o della prosperità. Allo stesso modo, riassumere tutto in termini di lotta generazionale è semplicistico, soprattutto perché così facendo si rende invisibile la lotta sociale. Vivo all’estero, ma la mia impressione è che il Cile di oggi abbia riconquistato la collettività, la solidarietà, la voglia di parlare, di partecipare, di unirsi, di discutere, di dissentire.

«Ultimamente ho pensato più volte che in letteratura il tema principale è sempre l’appartenenza. È l’unico tema inevitabile. Non è che tu decida di parlarne, ma piuttosto il fatto che tutti noi potremmo raccontare una qualsiasi storia sulle tensioni dell’appartenenza, sulle comunità a cui appartenevamo o volevamo appartenere»

Nel romanzo si avverte il rapporto speciale tra il Cile e la sua poesia. Cosa lega così tanto i cileni alla poesia secondo te? E perché è così importante?
A vent’anni mi sembrava che il Cile fosse un paese di merda con una poesia meravigliosa. Molti di noi si sentivano ai margini di tutto, ma non della poesia, che era la parte del Cile che ci includeva o a cui noi volevamo aderire. Questo è ciò che stavamo postulando. Per me la poesia cilena era una casa in cui mi facevano entrare senza chiedere nulla. A sedici anni andavo a una lettura all’Università del Cile e c’erano Jorge Teillier o Raúl Zurita e poi sgattaiolavo in un bar e mi sedevo allo stesso enorme tavolo con loro piuttosto che Gonzalo Millán o Stella Díaz Varín e poi andavo a un concerto di Mauricio Redolés… C’erano questi poeti, e tu li leggevi e li ammiravi e poi pubblicavi qualcosa e morivi di vergogna ma osavi ancora salire sul palco e balbettare una poesia.

Tu stesso come scrittore hai iniziato prima con alcune opere di poesia. Com’era Alejandro Zambra come poeta e come lettore? Hai sempre prediletto la poesia rispetto alla narrativa? Fai ancora una netta distinzione tra i due generi
Non ho mai smesso di scrivere poesie, ma le pubblico poco. Ero un cattivo poeta e lo sono ancora. Il mio romanzo gioca con questa assurda polemica tra poesia e prosa. E a volte gioco anch’io con questo. Non so, penso che la differenza tra poesia e prosa sia esagerata, preferisco pensarla più come la differenza tra due stili musicali. Credo che la poesia sia più vicina al religioso, al sacro, anche se nel senso più profano che si possa immaginare. Voglio dire, i lettori di poesie hanno il nostro César Vallejo o la nostra Emily Dickinson o il nostro Eugenio Montale sempre sul comodino, allo stesso modo in cui altri hanno la loro Bibbia o il loro Libro tibetano dei morti. La poesia si alza in mare aperto. E quando torna vigliaccamente a riva, appare o riappare la prosa. Penso di essere sempre stato più bravo a raccontare storie che a scrivere poesie, ma la poesia era legata, per me, al desiderio, a una ricerca vera, assoluta. E, naturalmente, a un eroismo silenzioso, non evidente, discutibile. Per questo mi interessava l’incrocio tra patrigno e poeta. Non sono ruoli o condizioni in linea di principio confrontabili, ma mi piaceva farli scontrare o convergere. In ogni caso, c’è molto più coraggio nella decisione di crescere un bambino estraneo che nella famosa lotta contro la pagina bianca, ovviamente.

Nel libro si citano diversi poeti, alcuni inventati, altri realmente esistiti. Sembra esserci uno spirito collettivo positivo, genuino che avvolge questa comunità. Al tempo stesso c’è però un lato dissacrante, ironico.
Si può leggere così, ma credo che tutto sia già stato sconsacrato decenni fa, sanamente sconsacrato, dall’antipoesia di Nicanor Parra in poi. La storia della poesia cilena è stata raccontata molto da Harold Bloom, dove c’erano questi titani che si fronteggiavano sul ring, perché la lotta è facile da capire, tutti i mondi o gli inferi possono essere raccontati dalla lotta degli ego. Ma è più difficile catturare lo specifico: un poeta da solo, nella sua stanza, che scrive per ore una poesia di cinque righe, per esempio. Quando, in adolescenza, ho conosciuto personalmente alcuni poeti, ciò che più mi ha colpito, sorpreso e compiaciuto è stata la loro timidezza. Avevo l’idea nerudiana che fossero tutti oratori consumati, eppure i poeti che ho incontrato parlavano poco, avevano difficoltà con il linguaggio, inciampavano nel linguaggio, come disse una volta il mio amico Andrés Anwandter. Scrivere poesie aveva più a che fare con il balbettio, la balbuzie e la dislessia che con l’eloquenza. Mi ha colpito molto questo, l’ho trovato incoraggiante.

C’è poi nel romanzo la comparsa di Nicanor Parra. Tu lo conoscevi di persona?
Sono stato fortunato, sì certo, l’ho incontrato nel 2002, quando lui era un giovane di 88 anni e io un vecchio di 27… Ho lavorato con lui curando la sua traduzione di Re Lear in spagnolo cileno e da allora ho continuato a fargli visita. È stato molto generoso con me. Ora, non so dire se l’ho conosciuto. Sono andato a trovarlo molte volte, ho ascoltato i suoi consigli, ho risposto alle sue domande gentili e dettagliate, sono stato il suo copilota quando guidava ancora il suo Maggiolino Volkswagen a novant’anni (siamo andati vicini a schiantarci), e ho scritto forse troppo sui suoi libri, ma non oserei dire che lo conoscevo personalmente.

Sembra esserci quasi l’eco dei Detective Selvaggi nella descrizione di questo circolo di poeti. Bolaño è una figura ingombrante cui rapportarsi o al contrario ha aperto nuove vie della letteratura per gli scrittori della tua generazione?
Non credo sia una figura ingombrante. Per me il suo lavoro ha sempre funzionato come una presenza liberatrice. Penso che Bolaño abbia influenzato molto sia me che molti altri nello scrivere in prosa. Sì, eravamo un po’ come quei personaggi che pensavano che “il romanzo è la poesia degli sciocchi”, come Eduardo Molina, mitico poeta cileno (mitico perché non ha mai scritto nulla), che attraverso quella famosa frase sintetizzava l’infinita e goffa arroganza dei “poeti-che-non-leggono-romanzi”. Mentre scrivevo Poeta cileno, mi veniva da ridere a pensare che il mio romanzo stesse diventando un romanzo che nessun poeta avrebbe letto… In ogni caso, l’idea della storia della letteratura come competizione sembra molto vecchia e anche poco interessante e imprecisa. Se sei angosciato dalle influenze letterarie, per favore, ci sono cose più orribili e angoscianti del tuo rapporto con la storia della letteratura!

 Nel libro si cita ad un certo punto Valerio Magrelli, poeta e accademico italiano. Conosci bene anche la poesia italiana?
No. Ma mi piacerebbe conoscerla bene. Ho letto solo dei poeti che ammiro molto, come Valerio Magrelli, sì, o Patrizia Cavalli. E ho passato l’intera pandemia leggendo devotamente Gianni Rodari con mio figlio di tre anni. E adoro anche Il Catalogo dei giocattoli di Sandra Petrignani. E ovviamente ci sono tanti italiani che ho letto e riletto per anni, classici come Natalia Ginzburg o Cesare Pavese o Dino Buzzati. Non so se Il deserto dei tartari sia il miglior romanzo che abbia letto in vita mia, ma è, probabilmente, quello che ho letto più volte in vita mia.