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Abbiamo un problema con l’alcol per colpa della pandemia?

Dal primo lockdown il nostro rapporto con il bere si è intensificato ma anche complicato.

di Clara Mazzoleni

«Sono depressa», mi ha scritto un’amica mentalmente sana qualche giorno fa. È una formula ormai sdoganata: recenti studi (condotti da me tra i miei conoscenti, amici e parenti) dimostrano che circa l’80 per cento delle persone che la utilizza non soffre né ha mai sofferto di depressione (che non è un’intensa sensazione di tristezza, è quella che se vai dallo psichiatra ti dice che ce l’hai). Chissà, forse prima o poi inizieremo a prestare attenzione anche all’abuso di termini che indicano questo genere di malattie: «schizofrenica!», mi diceva spesso un ex (non lo sono: la sua diagnosi era errata). «Sei anoressica?», chiedo ridendo a una collega che ancora conserva parte dei cioccolatini che le abbiamo regalato un mese fa (no, non facevano schifo). Dati precisi non se ne trovano, ma grazie ai miei approfonditi studi posso affermare con certezza che uno dei termini più utilizzati, ultimamente, è “alcolizzato”. «Durante il primo lockdown ero alcolizzato», dicono in tanti.

Dopo l’esplosione della pandemia, nelle chiacchiere dal vivo, al telefono o su WhatsApp, ma anche su Instagram e su TikTok si scherzava spesso sull’alcol come unica soluzione per sopportare il momento assurdo che stavamo passando. Cazzeggiando sui social, prima o poi ci si imbatteva in qualcosa di comico sul bere: un video, una battuta, un meme, la scena di un film o di una serie ripescata per l’occasione (poi, qualche mese dopo, La regina degli scacchi ha provato a sensibilizzarci). A un certo punto #babysaysno – dire no all’acqua, un po’ la variazione sul tema di quelle magliette sfigate con scritto «Don’t waste water drink champagne» – è stato un hashtag virale su TikTok. Per i più antichi c’era l’immagine di una fila di bottiglie con la scritta «Aprile. Non è un mese, è un consiglio» che girava su Facebook.

C’è stato un tempo in cui vedere un collega bere diversi bicchieri di vino in ufficio, durante l’orario di lavoro, sarebbe stato un po’ strano. Adesso è diverso. «Sono al terzo spritz», mi scrive un’amica alle 16: come me, sta in smart working da un anno. «Ma non sei un po’ brilla? Come fai a lavorare», le chiedo. «Anche i miei colleghi stanno bevendo!», si giustifica lei. Un goffo tentativo di team building a distanza. Non c’è niente di male, mi dico: l’importante è non perdere il controllo, portare a termine i propri compiti. Vedendo il suo team di creativi, nessuno penserebbe «sono alcolizzati, bisogna aiutarli». Perché a quel punto dovremmo pensarlo quasi di tutti. Ma cosa dobbiamo pensare, allora? Quando così tante persone bevono praticamente tutti i giorni, come si fa a capire chi durante quest’anno di pandemia ha sviluppato dei problemi con l’alcol e chi no?

Nel primo lockdown, secondo l’Istituto Superiore di Sanità, i consumi di alcol sono aumentati dal 180 al 250 per cento. Adesso che hanno riaperto i locali, le cose si mescolano ancora di più, o meglio: abbiamo tutti una bella scusa per continuare a bere. Prima ci affidavamo ai bicchieri per alleggerire la solitudine o la noia del restare a casa, acquistavamo bottiglie pregiate su internet per sostenere le enoteche e mandare avanti l’economia, ci facevamo recapitare una bella scorta di bottiglie dignitose per dare una botta di vita alle nostre cene sempre uguali, ordinavamo bottiglie scarse che Glovo ci consegnava nel cuore della notte per risolvere un inaspettato momento d’inquietudine o un’improvvisa voglia di festa. Adesso ci abbandoneremo al bere per festeggiare la ritrovata libertà e soprattutto mostrare solidarietà ai baristi e ai ristoratori.

Una scena da Another round, di Thomas Vinterberg

«Se continui a funzionare, a svegliarti la mattina e stare bene, vuol dire che hai trovato un tuo equilibrio», dice un mio amico che beve una bottiglia di vino al giorno da anni, si droga spesso e volentieri e altrettanto spesso e volentieri va a correre o si sveglia all’alba a fare yoga. La discriminante, quindi, sembrerebbe l’efficacia: se mi sento una merda non va bene, se continuo a funzionare e a sentirmi ok, tutto bene. Bere potrebbe addirittura aiutarci ad essere più creativi, a scioglierci un po’, farci venire nuove idee. E se il segreto fosse bere in continuazione? Sembra un po’ la teoria di Another round, il film di Thomas Vinterberg scelto per rappresentare la Danimarca agli Oscar 2021, dove ha vinto il premio come Miglior film in lingua straniera ed è stato candidato per il miglior regista: insoddisfatti della loro vita, quattro insegnanti di scuola decidono di testare su di loro una teoria secondo cui un costante stato d’ebbrezza porterebbe enormi benefici alla quotidianità. E a proposito di uomini ubriachi: una collega mi dice che durante il secondo lockdown ha bevuto molto meno del primo, ed è contenta soprattutto di tutti i soldi risparmiati così facendo (perché diciamolo, bere bene – ma anche male, dopotutto, per i danni che provoca – è un vizio costoso), anche se il rewatch di Mad Men, intrapreso ultimamente (un’inconscia operazione di autoboicottaggio?), sta risvegliando in lei la voglia di comprare un carrellino bar e sentirsi carismatica e disperata sorseggiando un Old fashioned alle 10 del mattino.

Don Draper al bancone del bar.

E poi ci sono gli sfortunati che ogni volta che prendono in mano il primo bicchiere scoprono di possedere una sete d’alcol atavica, misteriosa e senza fine. Il giorno dopo si svegliano e si maledicono: bocca asciutta, mal di testa, nessuna memoria di ciò che è successo la sera prima se non nelle agghiaccianti tracce lasciate sul cellulare (o peggio, sul proprio corpo, o nella memoria delle persone). Strani lividi, vocali sguaiati, messaggi sbagliati, affermazioni o gesti di cui il giorno dopo partner, amici ed amanti chiedono conto, e loro: «Ho fatto/detto questo? Impossibile». Anche i vicini, a volte, vorrebbero chiedergli perché alle 4 del mattino urlavano “Ti sento” dei Matia Bazar, ma per non metterli in imbarazzo si limitano a un discreto colpo sul muro. Il bello di restare chiusi in casa è che non ci sono gravi rischi per l’incolumità.

Esiste un comodo questionario che da decenni aiuta le persone a capire se devono preoccuparsi del loro rapporto con il bere. Una volta riconosciuto il problema, l’aiuto si può trovare ovunque. Perfino Instagram, che come gli altri social può funzionare come trigger, cerca di rivoltare la frittata e tendere una mano, proprio come con la body positivity: nel 2018, ad esempio (ma durante la pandemia i follower sono aumentati vertiginosamente), è nato Sober Girl Society, un account pensato per le donne che desiderano smettere di bere, creato da un’ex alcolista coi capelli rosa chiaro.

 

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Oltre agli alcolizzati latenti e alle donne, a preoccupare sono anche i più giovani: studenti in Dad che hanno preso l’abitudine di bere troppo spesso, approfittando della possibilità di restare a casa il giorno dopo e smaltire l’hangover pascolando comodamente in tuta nella propria camera. Messi da parte questi casi, cosa dire degli altri? Purtroppo per gli alcolisti, “gli altri” possono continuare tranquillamente a bere, ricordandogli cosa significa vivere senza questo problema o traendoli in inganno: «Ma dai solo un bicchiere, solo stasera, per festeggiare l’apertura dei bar!». Alcuni sono così sani che il loro corpo si è auto-regolato sulle due fasi della pandemia. È successo a tante persone, a quanto pare: «Nel primo lockdown bere un paio di birre o qualche bicchiere di vino a cena, magari aumentare un po’ nel weekend, era diventata un’esigenza, un’abitudine anti-stress», dice una collega con un ottimo controllo della bottiglia. «Nel secondo lockdown, invece, quella voglia di bere è completamente passata, forse anche per pigrizia e rassegnazione».

Ognuno di noi conosce qualcuno che durante quest’anno ha cominciato a bere troppo o molto più di prima. Diverse persone che conosco e che non erano mai state in terapia nella loro vita, hanno iniziato quest’anno, ovviamente a spese loro. Ma quel che vale per disturbi mentali vale anche per l’alcool: la consapevolezza nei confronti di questi problemi sembra essere un po’ aumentata, ma la risposta è ancora molto confusa, forse perché la gravità del problema ancora non è chiara. Il New York Times ha dedicato all’argomento una quantità di articoli, il più recente per evidenziare che ancora non conosciamo i danni a lungo termine di questo abuso di alcool collettivo e “normalizzato”. “How Bad Is Our Pandemic Drinking Problem?”, si chiede Kim Tingley. Secondo quanto riportato, studi dimostrano che l’anno scorso ha cambiato i modelli di consumo di alcol, soprattutto tra le donne. Chi ha risposto al questionario ha affermato di aver cominciato a bere di più per “gestire lo stress”: «Questa tendenza è particolarmente allarmante», spiega Tingley, «perché ricerche precedenti suggeriscono che le persone che bevono per far fronte ai problemi – invece di farlo per piacere – hanno un rischio maggiore di sviluppare un disturbo da uso di alcol, che è l’incapacità di smettere o controllare il bere anche quando provoca danni».

Come si legge nell’articolo, anche gli attacchi terroristici dell’11 settembre, l’epidemia di Sars del 2003 e l’uragano Katrina sono stati seguiti da un aumento dell’abuso di alcol tra coloro che li hanno vissuti o in qualche modo ne hanno subito le conseguenze. Nessuno però ha mai studiato l’impatto di una catastrofe che è durata così a lungo ed è stata pervasiva come l’attuale pandemia sul comportamento del bere. Oltre ad aumentare l’isolamento sociale, il Covid ha avviato cambiamenti diffusi nella disponibilità di alcol attraverso l’asporto e la consegna. «Quindi non è solo la salute della persona che beve che ci interessa», dice una scienziata interrogata dal giornalista, «ma è anche l’impatto sociale sulla famiglia e sulla società in generale». Il problema è che, pur essendo una sostanza pericolosissima, l’alcool continua a circolare nelle nostre vite quotidiane e ad essere parte integrante della socialità. Bere è normale? Bere è mortale? Dipende da cosa, da quanto, ma forse soprattutto da chi. Due mesi fa, sempre sul New York Times, si parlava della proposta di mettere sulle bottiglie di alcol avvisi anticancro come quelli che ormai siamo abituati a vedere sui pacchetti di sigarette. Nel caso dell’alcool, sarebbe giusto aggiungere anche la scritta “conosci te stesso”.