Attualità

A chi parla Renzi quando parla di art. 18

Il premier ha dato battaglia su quel punto specifico del Jobs Act con due obiettivi in testa: l'elettorato e la vecchia sinistra, e l'Europa che attendeva un messaggio forte per concedere un po' di flessibilità.

di Claudio Cerasa

Ci sono due lati non molto visibili ma non meno importanti che riguardano la storia della famosa approvazione della legge delega che di fatto abolisce un pezzo importante di articolo 18. Un lato di questa medaglia riguarda l’elettorato e un altro lato riguarda invece il rapporto con l’Europa. E in fondo la domanda è semplice. Per quale ragione Matteo Renzi – dopo aver passato molto tempo a dire che non è vero che il problema del lavoro è l’articolo 18, che non è vero che per riformare il lavoro occorre necessariamente cambiare l’articolo 18, che non è vero che per impostare la battaglia sul lavoro occorre puntare i riflettori sull’articolo 18 – ha scelto di utilizzare il simbolo della fine dell’articolo 18 per dare un senso alla sua riforma del lavoro, dimenticandosi invece di spiegare bene quali sono gli altri punti della riforma che potrebbero aiutare il paese a combattere la disoccupazione? I più maligni avrebbero la risposta pronta e ti direbbero che è ovvio: nella riforma sul lavoro non c’è niente che possa aiutare a far riprendere il lavoro ed è ovvio che Renzi abbia puntato tutto sull’articolo 18: semplicemente per buttarla in caciara.

Al di là del giudizio che ognuno di noi può dare sul Jobs Act la verità è che il presidente del Consiglio ha scelto di concentrare l’attenzione sulla norma che disciplina i licenziamenti per mandare un messaggio agli elettori e un altro all’Europa. Il messaggio agli elettori – messaggio dal sapore vagamente elettorale – è presto detto: fino a qualche tempo fa avete avuto davanti ai vostri occhi una sinistra incatenata al suo passato e incapace di affrontare di petto alcuni tabù; oggi quella sinistra è stata annientata, annichilita, distrutta, marginalizzata, persino umiliata; e di fronte a voi avete dunque ora una creatura politica diversa che forse somiglia poco alla sinistra come l’avete conosciuta ma che potenzialmente è in grado di attirare su di sé una valanga di nuovi elettori.
Chi non ama Renzi dirà che il problema è proprio questo e che a forza di rottamare la vecchia sinistra prima o poi il segretario del Pd perderà tutti i voti della vecchia sinistra. Chi ama Renzi dirà invece il contrario e dirà che la sinistra del futuro, per vincere, deve correre il rischio di parlare a nuovi elettori anche a costo di perderne alcuni dei vecchi. L’operazione più piacere oppure no ma ha un senso politico piuttosto evidente: puntare forte su un totem abbattuto per dimostrare che la sinistra di oggi è lontana anni luce da quella di ieri.

Il secondo fronte, più delicato, più complesso ma forse più importante, è invece quello legato all’Europa. E il fatto che Renzi abbia tenuto a puntare forte sull’articolo 18 lo si spiega anche così: tutte le più importanti istituzioni europee, sia quelle politiche sia quelle economiche, identificano da anni la rigidità del lavoro italiano con la rigidità con cui la sinistra ha difeso per molti anni l’articolo 18; e per dare un messaggio di grande discontinuità con il passato Renzi non aveva altre carte se non quella di dimostrare ai suoi colleghi europei che questo governo ha la forza di muoversi in modo diverso rispetto al passato. Durante l’incontro che Renzi ha avuto quest’estate in Umbria con il governatore della Bce Mario Draghi (13 agosto, Città della Pieve), il presidente del Consiglio lo ha capito chiaramente: senza una forte ed evocativa riforma sul lavoro l’Europa non avrebbe dato alcun sostegno all’Italia nell’ambito della flessibilità (e la Bce non avrebbe mai potuto sbloccare il suo piano di acquisto delle obbligazioni protette e dei titoli di stato). Renzi ha fatto suo il consiglio di Draghi e, approvando la delega con cui il Parlamento affida al governo il compito di riscrivere lo statuto dei lavoratori, ha raggiunto l’obiettivo e ha fatto passare in Europa un messaggio ben sintetizzato dal titolo che il Financial Times ha dedicato al tema: “Renzi victory as Senate backs reforms”.

Da un certo punto di vista, poi, quella di Renzi è la stessa tattica adottata dal presidente del Consiglio spagnolo, Mariano Rajoy, che nel 2013 ha ottenuto una deroga al raggiungimento del tre per cento proprio dopo aver presentato (nel 2012) una promettente riforma sul lavoro; ed è la stessa tattica adottata oggi dal primo ministro francese Manuel Valls, che da qualche settimana sta girando l’Europa promettendo che il suo paese, in cambio di maggiore flessibilità, renderà più flessibile il mercato del lavoro. Cosa potrà ottenere Renzi per aver mostrato all’Europa lo scalpo dell’articolo 18 (scalpo parziale ma scalpo simbolicamente importante) è evidente: una maggiore flessibilità nel raggiungimento del pareggio di bilancio nel 2015 e nel 2016 (che significa 10 miliardi in più da spendere nel 2015 e circa 20 miliardi da spendere nel 2016); la possibilità di eliminare il cofinanziamento dei fondi strutturali europei dal meccanismo del Patto di stabilità; lo scorporo degli investimenti produttivi dal calcolo del deficit; la trasformazione dei 300 miliardi promessi da Juncker in un progetto di finanziamento degli investimenti sulle infrastrutture; la creazione di un bilancio dell’Eurozona alimentato dal gettito prodotto dalla tassa sulle transazioni finanziarie; e la nascita di un fondo europeo di garanzia per il credito delle banche alle piccole e medie imprese. Alcuni di questi obiettivi il governo potrebbe ottenerli in fretta. Altri dovrà ancora sudarseli. Servirà tempo per capire se la riforma del lavoro, con la sua flessibilità, riuscirà a dare un contributo nella creazione di nuova occupazione. Servirà invece meno tempo per capire se la flessibilità utilizzata da Renzi come uno scalpo sarà in grado di sbloccare alcuni meccanismi europei che tengono da troppo tempo l’Italia incatenata.