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La Juventus era nello Studio Ovale mentre Trump parlava dei destini del mondo La visita della squadra alla Casa Bianca probabilmente verrà ricordata come una delle scene più surreali della storia del club italiano.

Il senso di Bangkok

Le insolite fotografie di Mathias Strømfeldt accompagnate da un contrappunto che racconta cosa rappresenta per noi occidentali la capitale thailandese.

21 Giugno 2016

Cosa significa Bangkok per noi occidentali? Nel pezzo che segue, pubblicato originariamente sul Manifesto del 19 settembre 2009, che fa da contrappunto alle insolite, almeno per l’immaginario occidentale, fotografie diurne di Mathias Strømfeldt, Tommaso Pincio recensisce Bangkok di Lawrence Osborne, raccontando la sua esperienza personale di viaggi e di vita nella capitale della Thailandia e raccontando che cosa rappresenta, anche letterariamente, questa città per il visitatore occidentale.

Negli anni non ho mai smesso di tornare a Bangkok. Alcuni stentano a capire, si domandano cosa ci trovi. «È uno schifo» dicono. La mia tentazione di ribattere viene spesso repressa dalla consapevolezza che Bangkok non è bella. Perlomeno non secondo i canoni per cui tutti apprezzano luoghi come Parigi, Londra o New York. Di fronte a una cementificazione tanto scriteriata, il turista sbarcato di fresco resta comprensibilmente interdetto. Il traffico selvaggio e pestilenziale rende disagevoli gli spostamenti, peraltro non incoraggiati dal caldo da sauna che impera nelle ore diurne. Non per nulla, la maggioranza si trattiene giusto il tempo di guardarsi un po’ attorno. Una fugace visita ai siti monumentali e al mercato galleggiante, un’ora di relax in una sala massaggi e poi via, verso mete più vacanziere: un’isola, una spiaggia, la natura dei tropici. A fermarsi più a lungo sono quasi sempre uomini attempati in cerca di avventure a buon mercato, un po’ di sesso sbrigativo condito da un’idea molto annacquata di amore. Li vedi ciondolare, questi uomini, affannati e sudati, dalle parti di Sukhumvit Road oppure seduti in un bar, sorseggiando una birra in attesa che cali la sera, e quasi mai sono un bello spettacolo. Dunque, cosa ci trovo? In passato, nemmeno a me era chiaro il fascino che mi irretiva. Poi, un giorno, una ragazza mi ha detto: «Asia men no farang. You farang», e io ho compreso.

Avevo sempre pensato che la parola farang non fosse che una storpiatura dell’inglese foreign e avesse pertanto lo stesso significato. Non è così. Birmani, laotiani e cambogiani che si trovavano in Thailandia non sono farang, veri stranieri cioè. Farang siamo unicamente noi, gli stranieri d’Occidente, e sempre lo resteremo. Per quanto cerchi di insediarsi, l’uomo occidentale non cesserà mai di essere un farang. Potrà decidere di trasferirsi, intraprendere qualche attività e magari anche sposarsi, ma il suo tentativo di mettere radici non si compirà mai fino in fondo, poiché la possibilità di diventare uno del luogo, di integrarsi nel senso pieno del termine, gli è preclusa. Il senso di pacificata putrescenza che ristagna ovunque a Bangkok – nella quiete dei templi buddisti come nei lascivi go-go bar o nei soi brulicanti di gente e odori – aiuta però il farang a vivere la propria condanna all’estraneità con una sorta di felice rassegnazione. Del resto, è la ragione per cui la città degli angeli asiatica attira fatalmente un tipo ben preciso di persona: l’occidentale che nel mezzo del cammin di propria vita ha finito, deliberatamente, per smarrirsi, ovvero estinguersi nel samsara, l’eterno ciclo di vita morte e rinascita. Volendo metterla in termini meno mistici, a fermarsi da queste parti è colui che ha deciso di lasciarsi serenamente andare alla deriva. Tutto ciò fa di Bangkok l’ultima città al mondo in cui è possibile vivere una vita da espatriati, simile a quella di certi derelitti personaggi di Graham Green, primo fra tutti Thomas Fowler. Il cinquantenne cronista dell’Americano tranquillo e certi suoi parenti stretti – inquieti erranti e transfughi d’Occidente quali l’Ismaele di Moby Dick o il colonnello Kurtz di Cuore di tenebra – esercitano su di me un ascendente di notevoli proporzioni e sono alla base della mia attrazione per questa metropoli.

È quindi più che legittimo dubitare della mia imparzialità se affermo che l’ultimo libro di Lawrence Osborne, Bangkok (Adelphi, ottimamente tradotto da Matteo Codignola, pp. 280, euro 20) è, nel suo genere, un gioiellino imperdibile. Ma tant’è. Osborne, già noto al pubblico italiano come scrittore viaggiatore grazie al Turista nudo, non ha nemmeno provato a penetrare il cuore nascosto della cultura thai. Si è limitato a osservare i farang cui lui stesso in fondo somiglia, i pigri sibariti impegnati nella non impossibile missione di sparire in un’enorme città dove una larga gamma di desideri, inclusi quelli ai limiti dell’illegalità, può essere facilmente appagata. Si è affidato alle loro storie non soltanto per l’oggettiva difficoltà di capire realmente i nativi, ma anche perché Bangkok è diventata la città che è proprio in virtù del suo mezzo milione di viaggiatori, esiliati e autoemarginati occidentali. I farang che la abitano ne hanno fatto un posto ibrido, che appartiene tanto ai thailandesi quanto agli occidentali. Due città in una che non sempre coincidono ma che comunque si fondono.

Il sottotitolo, Un soggiorno nella capitale del piacere (omesso nell’edizione italiana), va dritto al prevedibile nocciolo del problema. Osborne si tiene però lontano dalle abusate retoriche intorno alla prostituzione, sia in un senso che nell’altro. Non la condanna né indulge più di tanto al suo decadente lucore. Indirettamente, rifiuta pure la vecchia teoria per cui la locale mollezza di costumi risalirebbe agli anni della guerra del Vietnam, quando gli americani convertirono Bangkok in un luna park per i soldati in licenza. Preferisce invece leggere l’elevato tasso di tolleranza come un effetto della fede buddista nella reincarnazione. La ciclica metamorfosi per cui ogni uomo è stato a suo tempo donna e viceversa favorirebbe la promiscuità nonché il passaggio da un sesso all’altro; e qui lo scrittore si lascia incantare da una figura tipica del mondo thailandese, il katoey ovvero il maschio effeminato. Katoey sono tanto gli uomini che cambiano chirurgicamente sesso quanto coloro che non si spingono al di là del mero travestimento. La parola chiave è per l’appunto trasformazione, diventare altro da sé.

Per Osborne, Bangkok è il luogo dove un simile miracolo è alla portata di chiunque. Dei quindici milioni di visitatori che ogni anno vi transitano, la minoranza di coloro che decidono di fermarsi lo fa proprio perché confida nella possibilità di una rinascita, tanto fisica che spirituale. Lo stesso scrittore confessa di esservi giunto squattrinato e con scarse prospettive. «Avevo cominciato a frequentare Bangkok per un fatto di denti, cioè perché in sostanza a New York non potevo permettermi un’assicurazione. A Bangkok con quattordici otturazioni mi avevano chiesto quattrocentocinquanta dollari, niente rispetto a qualsiasi polizza americana. Anche calcolando i biglietti aerei e una mensilità al Primrose, ci andavo a guadagnare. Insomma, la ragione fondamentale che mi aveva costretto all’esilio temporaneo era di carattere finanziario. C’era poco da fare, i conti parlavano chiaro: al momento l’Occidente era al di sopra delle mie possibilità, tanto che stavo addirittura pensando seriamente di trasferirmi da quelle parti in pianta stabile. Dopotutto, la Thailandia era un affare».

Come molti, ha finito per trattenersi: «Per me Bangkok era la notte. Di giorno faceva troppo caldo, e il caldo lo tollero, il sole no. Così ero diventato un camminatore notturno. La mia era una solitudine volontaria, anzi, calcolata. Rimanevo in strada fino a ore impossibili, frugando dappertutto come un procione. Col tempo avevano cominciato a piacermi gli sbuffi di basilico rancido e marijuana fredda che Bangkok sembra espellere da narici invisibili; mi piacevano le ragazze, che ti sfioravano nel buio buttando lì, come due monete su un bancone, sempre le stesse parole: «Bai nai?». E mi piaceva quella putrefazione selvaggia». Osborne evita di specificarlo, bai nai? significa «dove vai?» e viene spesso usato come una forma allusiva di saluto non soltanto dalle prostitute. Bai nai? rende alla perfezione lo spirito della vita di strada che si conduce a Bangkok, il costante ciondolare e la possibilità di scrollarsi di dosso la solitudine con la facilità con cui da noi si prende un caffé; facilità che vale però anche al contrario, perché come niente ci si ritrova più soli di prima. In fondo, la ragione profonda del libro è la paradossale tristezza di una metropoli che, a dispetto della sua promiscuità, è dominata dalla solitudine, ma a differenza di tante città gravate dallo stesso problema offre continue vie di scampo.

«Anche il mercato del sesso ha a che fare con la solitudine», ha spiegato Osborne in un’intervista. «Non credo che gli uomini che vengono a Bangkok siano ossessionati dal sesso, perché quel genere di ossessione sessuale è perlopiù un mito. In realtà, la faccenda è assai più complicata e concerne il modo in cui una persona interagisce con lo spettro della solitudine, che per ovvie ragioni si fa sempre più minaccioso con l’avanzare dell’età». La Bangkok di Osborne si rivela allora una città imprevedibile che, seppur pullulante di vita, è pervasa di tristezza. Ma il suo libro è tutt’altro che triste. Racconta, con appassionato disincanto e non poca ironia, di farang che si liberano del proprio passato per assurgere a nuova vita, a cominciare da Anna Leonowens, istitutrice inglese che negli anni Sessanta dell’Ottocento si occupò della progenie del monarca Rama IV. Questa indomita e un tantino altezzosa signora inglese fu inoltre autrice di un’autobiografia ricca di panzane, il che induce Osborne a vedere in lei l’antesignana dei farang che usano il Siam, la Thailandia, per reinventarsi, trasformandosi in personaggi da romanzo. «Si poteva fare solo in un paese non ancora colonizzato: niente infrastrutture, niente verifiche, nessuno che venisse a ficcare il naso». Il bello è che incredibilmente si può fare anche oggi. E infatti, lo scrittore incappa subito in uno strano vicino d’alloggio, un certo McGinnis, un inglese dal fisico ossuto, venditore di condizionatori d’aria e compilatore – a scopo puramente filantropico, a suo dire – di un’enciclopedia dei bar di Bangkok. Torna fatalmente alla memoria il venditore di macchine aspirapolvere nonché spia per caso di un notissimo libro di Greene, sebbene Osborne opti per altri riferimenti: «McGinnis era un uomo senza passato, uno di quei personaggi di Simenon che un bel giorno salgono su un treno e vanno a far secco uno sconosciuto in una città lontana».

Ma alla resa dei conti, che si guardi a Simenon o a Greene fa poca differenza. L’effetto è sempre lo stesso: quello di essere d’incanto sbalzati in una dimensione d’altri tempi. Finanche il libro di Osborne dà spesso la sensazione di un libro noir che, abortito sul nascere, ha assunto le forme di un diario di viaggio solo in un secondo momento: «Al crepuscolo, quando l’aria diventava grigio cenere, le froge si dilatavano per accogliere qualcosa di indefinibile – il profumo acre dei peperoncini «merda di topo» passati in olio bollente e pasta di tamarindo. E cominciavo a precipitare come una pietra in un pozzo – solo che il pozzo ero io. A Bangkok si arriva quando si sente che nessuno ci amerà più, quando si getta la spugna, e a pensarci bene la città è solo questo, il protocollo di una caduta. Valeva per me, ma anche per gli altri inquilini del Primrose: spezzati, respinti, delusi, erano partiti per l’Oriente». Difficile immaginare un attacco più romanzesco di questo, eppure chi conosce Bangkok sa che non c’è nulla di artefatto. La città è davvero così e, come pare affermare Somerset Maugham, «se qualcosa di così fantasmagorico esiste, dovremmo solo esserne grati».

Le fotografie sono di Mathias Strømfeldt. Tutti i suoi lavori sono consultabili all’indirizzo leftovertoast.tumblr.com
Courtesy Tommaso Pincio/Il Manifesto
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