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17:38 martedì 16 settembre 2025
È morto Robert Redford, una leggenda del cinema americano Aveva 89 anni, nessun attore americano ha saputo, come lui, fare film allo stesso tempo nazional popolari e politicamente impegnati.
La prima puntata del podcast di Charlie Kirk dopo la sua morte è stata trasmessa dalla Casa Bianca e l’ha condotta JD Vance Il vicepresidente ha ribadito che non ci può essere pacificazione con le persone che hanno festeggiato o minimizzato la morte di Kirk.
Tra i film candidati a rappresentare l’Italia all’Oscar per il Miglior film internazionale ci sono praticamente tutti i film usciti in Italia quest’anno Tranne La grazia di Paolo Sorrentino, ma non per volontà: la sua assenza è solo una questione burocratica.
A Lampedusa sono arrivati tre immigrati palestinesi a bordo di una moto d’acqua I tre hanno usato ChatGPT per pianificare la rocambolesca fuga verso l’Europa, seminando le motovedette tunisine per arrivare in Italia.
Il concerto in Vaticano per il compleanno del Papa è stato uno degli show più assurdi di sempre La collabo Bocelli-Pharrell, i Clipse primi rapper a esibirsi in Vaticano, i droni del fratello di Musk, lo streaming su Disney+ e la diretta su Tv2000: è successo davvero.
L’ultima tappa della Vuelta di Spagna è stata annullata perché 100 mila manifestanti pro Palestina hanno invaso le strade A causa delle proteste non c'è stata nessuna cerimonia di premiazione, niente passerella finale e né festeggiamenti ufficiali.
Javier Bardem si è presentato con la kefiah al collo sul red carpet degli Emmy L’attore spagnolo ha chiesto la fine del blocco agli aiuti umanitari, guidando una folta schiera di star che hanno parlato della Palestina agli Emmy.
Non se lo aspettava nessuno ma quest’anno agli Emmy è andato tutto per il verso giusto Adolescence, The Pitt, Hacks, The Studio, Severance: tutte le serie più amate e discusse dell'anno hanno vinto.

Free Jahar e gli altri

I fan di Tsarnaev, James Holmes e i Columbiners: il mondo sommerso (e giovane) del culto per i criminali, tra Gif e fumetti molto "dolci".

24 Luglio 2013

Lo scorso 10 luglio Dzhokhar “Jahar” Tsarnaev – il 19enne di origini cecene accusato dell’attentato alla maratona di Boston del 15 aprile 2013 – si è presentato per la prima volta in un’aula di tribunale. Stando alla cronaca di USA Today, Tsarnaev è apparso «trasandato e nervoso», si è dichiarato «non colpevole» e ha guardato più volte la folla assiepata nella corte federale, tra cui c’erano 30 vittime dell’attentato con i relativi familiari.

Fuori dal tribunale, invece, il movimento “Free Jahar” ha organizzato una bizzarra manifestazione di supporto all’attentatore. Uomini e (soprattutto) giovani donne hanno intonato slogan a favore di Tsarnaev, indossando magliette con scritto «liberate il leone» e reggendo cartelli che recitavano «Esoneratelo! Jahar libero!» e «Boston è una false flag». La circostanza non è andata troppo giù ai passanti, che hanno rivolto ai manifestanti parole non esattamente concilianti: «Siete della feccia».

I “fan” dell’attentatore sono assolutamente convinti che Jahar non solo sia innocente, ma che sia stato incastrato dal governo per i più oscuri e disparati motivi. Subito dopo il suo arresto, inoltre, sono state create petizioni su Change.org, l’hashtag #Freejahar ha cominciato a spopolare e i Tumblr tenuti da ragazzine – e non solo – si sono riempiti di foto dell’attentatore e status oltremodo simpatetici, in puro stile belieber. (Sì, qualcuno si è anche messo a fare le gif di Tsarnaev).

Il movimento “Free Jahar”, insomma, mescola in un unico calderone la cultura del “fandom”, le più strampalate teorie complottiste, uno scetticismo di fondo (che in alcuni casi può sfiorare la patologia) nei confronti della versione “ufficiale”, rivendicazioni politiche e una strana – ma non inusuale – empatia nei confronti del killer. Il risultato, scrive Max Read su Gawker, è «uno strano ibrido» che nasce e si struttura sui social media, è animato quasi interamente dai teenager ed è ostinatamente impermeabile a qualsiasi argomentazione logica.

Non è la prima volta, del resto, che l’autore di un gesto orribile incontra in una fetta della popolazione una solidarietà piuttosto diffusa. Senza tornare indietro fino a serial killer come Ted Bundy e Charles Manson (che contavano comunque su una nutrita schiera di groupies), è sufficiente ricordare come lo spaventoso massacro di Aurora dello scorso anno abbia dato vita alla sottocultura delle “Holmies”, ossia le teenager innamorate di James Holmes.

Usando Tumblr e altri social network, le Holmies condividono istruzioni per inviare lettere in carcere a Holmes, scrivono “confessioni amorose” (questo il tenore: “VOGLIO ACCAREZZARLO FINO A FARLO SOFFOCARE”) e pubblicano disegni del genere.

Il gruppo più longevo e partecipato è però quello delle Columbiners, che deriva appunto dalla strage di Columbine del 1999. Sebbene abbia lasciato una profondissima cicatrice nella psiche collettiva degli Stati Uniti, il massacro compiuto da Eric Harris e Dylan Klebold aveva incontrato sin da subito (come documentato da Mark Ames nel saggio Social Killer) una notevole simpatia nella comunità studentesca e ispirato anche altre sparatorie. Le Columbiners, tuttavia, hanno portato l’empatia nei confronti dei killer sul piano eminentemente sessuale. Come riporta Rachel Monroe su The Awl, le Columbiners pubblicano disegni in cui Eric e Dylan «si reggono le rispettive erezioni su un letto sfatto», fanno apprezzamenti sul fondoschiena di Harris e si ritraggono mentre indossano pantaloni militari, impermeabili neri e magliette con scritto “SELEZIONE NATURALE”, ricevendo commenti entusiastici («sei così carina, voglio accarezzarti»).

Un simile comportamento potrebbe essere catalogabile come ibristofilia, cioè «l’attrazione morbosa verso coloro che hanno compiuto reati oltraggiosi contro il genere umano». Ma, come avverte Monroe, sarebbe troppo facile definire “problematica” la pubblica esibizione della sessualità delle Columbiners, dato che la «sessualità delle adolescenti – come quella degli adulti, del resto – può spingersi fino alle aree più illogiche e oscure, anche quanto la cotta non riguarda un assassino».

Da Tumblr: «Ho 17 anni e sin da quando ricordi ho sempre avuto una fascinazione per i serial killer e gli assassini. Columbine? Ted Bundy? BTK? Li adoro»

Ad ogni modo, uno status su Tumblr scritto da un diciassettenne (non più online ma reperibile su BuzzFeed) spiega abbastanza chiaramente cosa possa spingere un adolescente a interessarsi di queste figure, e come l’empatia per gli stragisti non necessariamente debba escludere quella per le loro vittime: «Ho 17 anni e sin da quando ricordi ho sempre avuto una fascinazione per i serial killer e gli assassini. Columbine? Ted Bundy? BTK? Li adoro. Questo vuol dire che adoro anche il fatto che abbiano ucciso delle persone? Ovviamene no. Non ucciderei mai nessuno e mi sento vicino alle famiglie che hanno perso i loro cari. Tuttavia, sono sempre curioso di sapere perché abbiano commesso questi crimini. Come ce l’hanno fatta? Che cosa c’è nelle loro teste?»

La settimana scorsa Rolling Stone ha provato a rispondere all’ultima domanda con un lungo articolo investigativo su Dzhokhar Tsarnaev. La decisione di mettere una foto dell’attentatore in copertina ha suscitato moltissime polemiche: il governatore del Massachusetts Deval Patrick ha definito la scelta editoriale «di cattivo gusto»; la catena di farmacie Cvs ha deciso di non vendere il numero della rivista «per il rispetto dovuto alle vittime dell’attentato e ai loro cari»; e un’altra catena di negozi del New England ha boicottato il magazine per «l’intenzione di glorificare azioni malvagie».

Non ci troviamo, infatti, davanti a mostri che incarnano il Male Assoluto. La realtà è di gran lunga peggiore: siamo di fronte a ragazzi che potremmo conoscere, persone che potrebbero essere i nostri compagni di scuola

Altri invece, come Mark Joseph Stern di Slate, hanno trovato particolarmente brillante l’operazione di Rolling Stone, dato che ha «sovvertito le nostre aspettative» e ricostruito la vicenda in maniera molto meno confortevole di quanto hanno fatto finora tutti gli altri media. Lungi dall’essere apologetico, il ritratto di Jahar che emerge dall’articolo di Janet Reitman non è quello di un terrorista islamico psicopatico. Al contrario, è il ritratto di un normalissimo adolescente americano che, a causa di alcune fattori concomitanti (la radicalizzazione del fratello, la separazione dei genitori, la lontananza da casa, i problemi economici, i debiti universitari e molto altro ancora), ha deciso di diventare un assassino e di rivoltarsi contro il Paese che l’aveva accolto e cresciuto sin da quando era bambino.

Per quanto possa sembrare grottesco e assurdo – e in parte lo è – l’esistenza del movimento “Free Jahar” e delle Columbiners non deve sorprendere più di tanto. Non ci troviamo, infatti, davanti a mostri che incarnano il Male Assoluto. La realtà è di gran lunga peggiore: siamo di fronte a ragazzi che potremmo conoscere, persone che potrebbero essere i nostri compagni di scuola o i figli dei nostri vicini di casa. E se perdonare atti del genere è impossibile, identificarsi con chi li compie e cercare di capirli lo è molto meno.

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