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La versione di Pamela

Nel documentario Netflix e nel memoir, usciti entrambi il 31 gennaio, l'attrice assume finalmente il completo controllo del suo corpo, della sua storia e dei suoi amori.

di Clara Mazzoleni

Mentre iniziavo a guardare il documentario su Pamela Anderson, qualche giorno fa, mi ripromettevo di recuperare anche la serie Pam & Tommy. Non mi aveva particolarmente incuriosito, come progetto, anzi (allo stesso modo in cui provo repulsione verso la serie su Amy Winehouse, ancora in lavorazione) ma dovendo scrivere del “ritorno” dell’attrice e sex symbol, mi sembrava giusto guardarla, per completezza. Dopo aver finito il documentario, però, ho capito che potevo serenamente farne a meno, con la benedizione di Pamela in persona e dei suoi due figli Brandon e Dylan. Invece, mentre il film stava per finire, ho fatto il reso della versione digitale del suo nuovo memoir, acquistato in quel formato per spilorceria, e ho deciso di investire nella versione cartacea, da tenere vicino al letto come una specie di Bibbia. Il documentario, infatti, ha confermato qualcosa che ho sempre sospettato leggendo le caption del suo profilo Instagram: Pamela Anderson scrive benissimo. E il memoir Love, Pamela (HarperCollins, disponibile dal 31 gennaio, come il documentario) contiene sia ricordi personali in prosa che lunghe poesie.

Come lei stessa racconta in Pamela, A Love Story, mentre sullo schermo scorrono decine e decine di diari e migliaia di fogli gialli (legal pad) pieni di parole, la scrittura è sempre stata fondamentale per lei. In occasione del documentario, Anderson ha dato al regista libero accesso a tutto quel materiale e gli ha permesso di selezionare i passaggi che gli sembravano più significativi. Non ha voluto leggerli lei, però (troppo doloroso, dice sorridendo) e così a pronunciare le parole che vediamo apparire nella sua calligrafia rotonda, da ragazzina, è una voce ancora più da bambolina-bambina della sua, che rende tutto ancora più strappalacrime. La vita di Pamela Anderson, infatti, è un incredibile mix di enormi sfortune e grandi fortune. Abusata per anni dalla sua baby sitter, ha trascorso l’infanzia convinta di averla uccisa con il pensiero magico: è morta in un incidente d’auto il giorno dopo che lei ha intensamente espresso il desiderio che morisse (Anderson pioniera del manifesting, potremmo dire). Quando aveva 12 anni è stata stuprata da un venticinquenne. Ma la sua bellezza ha fatto sì che tra tutte le ragazze del mondo venisse scelta, nel 1989, ancora sconosciutissima, per posare sulla copertina di Playboy. Non aveva mai preso un aereo in vita sua. Per varcare il confine ha dovuto prendere un autobus fino a Seattle, hanno controllato i documenti a quello davanti a lei e a quello dietro di lei, ma non a lei (l’avrebbero rimandata indietro in quanto canadese). «Quando sono arrivata ero timida», dice raccontando il suo primo shooting, «alla fine dovevo trattenermi per non andare in giro nuda».

Anche in amore è stata al tempo stesso fortunatissima e sfortunatissima. Gran parte del documentario è costituito da registrazioni dei suoi momenti più belli con Tommy Lee, e chi non desidererebbe vivere, almeno una volta nella vita, un amore pazzo e appassionato come il loro? Si sono sposati 4 giorni dopo il loro primo incontro: sembrava una follia e invece si erano semplicemente riconosciuti da subito. Nei video filmati con le telecamerine (l’oggetto del desiderio di questi mesi, anche grazie ad un altro film che celebra gli anni Novanta, Aftersun) appaiono sempre ubriachi di felicità (e di alcol, anche, a dire la veirtà), assurdamente belli entrambi (a differenza di lei, lui è peggiorato moltissimo), sempre intenti a giocare, come dei bambini (a Venezia in gondola, lui fuma e lei gli dice che sta rovinando tutto con la sua sigaretta: lui le risponde che è lei che sta rovinando tutto, col suo alito – il mio alito? ripete lei, super divertita, come se lui avesse appena fatto la battuta più spassosa del mondo). Ancora oggi Pamela guarda quei video con le lacrime agli occhi, ricordando l’unico vero amore della sua vita, e l’impressione è che non sia una scenetta messa in atto per la telecamera. Lo dice anche ai suoi figli, ormai grandi, che il loro padre è stato il suo unico vero amore. Loro la guardano con tenerezza, stima e forse anche un po’ di compassione, perché sanno bene che tutti i suoi matrimoni (5 finora, il documentario li passa in rassegna uno dopo l’altro) sono stati dei deludenti, disperati e falliti tentativi di ritrovare un sentimento che non ha mai più provato, o almeno superarlo.

Ci sono tanti momenti tristi: il primo aborto (causato dal troppo lavoro), il furto della famosa videocassetta (il primo caso di video porno virale nella storia del pop, come ci ricorda suo figlio Brandon) e l’umiliante processo per reimpossessarsene a cui lei ha dovuto rinunciare per non rischiare di abortire di nuovo, la sera in cui Lee l’ha aggredita con violenza mentre aveva in braccio il piccolo Dylan e che l’ha costretta a lasciarlo, per sempre. Una decisione che appare ancora più chiara (e dolorosa) dopo che Pamela ha raccontato con precisione le dinamiche della famiglia in cui è cresciuta.

Il tempo presente del documentario, infatti, si svolge a Ladysmith, in Canada (8990 abitanti), l’isola dove Pamela Anderson è cresciuta con la madre cameriera, il padre spazzacamino giocatore di poker, aggressivo e alcolizzato e il fratellino, che lei cercava invano di difendere dai genitori, dai loro litigi violenti così come dal sesso che esplodeva subito dopo («con la stessa energia», ricorda lei). Vediamo Pamela Anderson oggi che guida un trattorino tagliaerba indossando stivali di gomma col tacco e saluta con la mano sua mamma. Poco dopo, avvolta in un lungo cardigan di cachemire bianco, cammina sulla piccola spiaggia malinconica e sassosa, così diversa da quella di Baywatch: «Qui non puoi correre in slow motion», ride. Quando parla infila una battuta dietro l’altra, e ride da sola.

Anche (o soprattutto) i ricordi più amari subiscono questo trattamento ironico, lo stesso che nelle interviste la portava ad assecondare quello che il pubblico si aspettava, comportandosi come una caricatura: oggi diremmo, trollando. Illuminante il montaggio di interviste intervistatori uomini e cinquantenni la bombardano di domande sulle sue protesi (che all’epoca fecero scandalo: incredibile, a pensarci adesso, quando la donna considerata la più bella del mondo è più frutto dell’artificio umano che della natura). È sempre stata piena di debiti e totalmente priva di istinto imprenditoriale: non è stata capace di investire tutti i soldi guadagnati negli anni d’oro di Baywatch, rifiutò senza il minimo indugio i 5 milioni di dollari offerti a lei e Tommy per il sex tape. Trattata per tutta la vita come la tettona frivola, la rifattona, un esempio di bellezza volgare fatta apposta per lo sguardo maschile, a un certo punto ha iniziato a sfruttare il suo potere sessuale per la causa animalista. Dai media veniva trattata come una tamarra ignorante, oggi è chiaro che è sempre stata un’icona di stile e personalità: le sopracciglia sottili che in questo periodo ritroviamo ovunque (tra le ultime ad adottarle un’altra icona di stile e personalità, forse una specie di sua erede, Julia Fox), i capelli voluminosi, la voce, la risata. Nel documentario sceglie di mostrarsi senza trucco, splendida nei suoi 55 anni. Finita sui giornali appena nata (letteralmente: è stata la neonata del centenario), collezionista di uomini sbagliati, distrutta dal suo stesso pubblico, Pamela Anderson è stata la Marilyn Monroe dei suoi anni, ma la sua è una storia a lieto fine: potremmo dire che questo documentario è l’antidoto a Blonde. «Non sono una vittima», dice lei, che oggi si tinge di biondo platino con la tinta del supermercato, «mi sono messa in situazioni assurde e sono sopravvissuta».