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I fratelli Gallagher si sono esibiti insieme per la prima volta dopo 16 anni In un circolo operaio a Londra.

La vita anti-sociale

Da quando c'è internet si lavora meno e con meno felicità? There's an app for that, e fa sparire la rete

07 Settembre 2012

(Se vuoi saltare la premessa biografica vai al paragrafo 5)

Un grande tema a casa mia fino alla fine dell’università è stato il Metodo di Studio, che mio padre mi accusava di tanto in tanto di non avere, salvo poi accusare mia sorella di non averlo, a differenza mia. Il Metodo di Studio era impossibile anche solo da concepire, perché andare a scuola non era abbastanza interessante. Ciò in cui si metteva costanza, tipicamente, era l’esercizio alla chitarra elettrica per fare assoli velocissimi (all’epoca pensavo che “assolo” avesse il plurale in –i).

Il Metodo di Studio diventa un tema caldo della vita adulta quando ci si ritrova freelance senza avere ipotizzato per un solo momento – giovani tradizionalmente borghesi fino al midollo – che si sarebbero vissute le proprie giornate adulte fuori da un ufficio, ossia da un’aula scolastica sotto mentite spoglie. Il Metodo di Studio è molto importante per il freelance, che spesso lavora in pigiama, vestaglia, mutande o nudo. Il Metodo di Studio prevede che si sappia quante pause ci si può concedere, quante telefonate, quanti spuntini, quanti sonnellini pomeridiani.

Lavoro dal 2003 e sono diventato da subito un maestro dell’organizzazione. Il mio impero di concentrazione anale si è però andato sgretolando progressivamente negli ultimi anni via via che si diffondevano la banda larga, i social network, il wi-fi e infine Google Chrome, che carica le pagine così in fretta. Nel tempo, quella che mio padre chiamerebbe efficienza o produttività è diminuita radicalmente.

Il problema però non è la produttività o l’efficienza: il problema è la felicità. Internet mi ha reso impossibile provare felicità quando lavoro; avere il senso di una cosa ben fatta, di una giornata vissuta bene. Tutto è sporcato continuamente, ogni forma di raccoglimento della fatica è impedito dalla continua interruzione per cercare piacere o informazione. Mentre mi preparavo psicologicamente a un nuovo anno di lavoro dopo una sola settimana di vacanza, cominciavo a chiedermi, intorno al venti di agosto, come si potesse restituire un po’ di sacralità al lavoro, che è ciò che nobilita l’uomo e su cui si fonda la costituzione italiana e che per me era diventato un viaggio quotidiano a Las Vegas interrotto occasionalmente dalla scrittura di qualche riga. Avevo cominciato a chiedermi se non fosse il caso di fare qualcosa di letteralmente sacro per ridare dignità al lavoro, per esempio recitare una preghiera prima; poi avevo chiesto in giro se qualcuno conosceva programmatori di software a cui chiedere di progettarmi una applicazione per distruggere internet a comando, per impedirmi di stare in rete.

Poi domenica scorsa ho letto sul Corriere della Sera che Zadie Smith, alla fine del suo nuovo romanzo NW, ringrazia un paio di applicazioni che le hanno permesso di lavorare senza distrazioni. Ho segnato il nome di una delle due e ho scaricato la versione prova. Il giorno dopo l’ho comprata.

Si chiama Freedom, costa 10 dollari e funziona così: si accende, si inserisce il numero di minuti in cui si desidera stare al computer senza internet, da lì in poi si sta senza internet. Un amico, vedendo come postavo su Facebook commenti sull’applicazione, mi ha chiesto perché non mi limitavo a spegnere il modem. Gli ho dovuto dire che il modem potevo riaccenderlo, questo no. La verità è più complessa: Freedom si può disattivare riavviando il computer. Per qualche strana ragione, mentre ho sempre riacceso subito il modem ogni volta che l’ho spento, questa settimana non ho mai riavviato il computer per eliminare Freedom e ritornare su gazzetta.it e Facebook. Non so perché. I programmatori sostengono che sia umiliante riavviare il computer. Secondo me è umiliante anche inginocchiarsi sotto il tavolo per riaccendere il modem, eppure l’ho sempre fatto. C’è un altro elemento interessante: quando arrivi in fondo alla sessione offline, Freedom ti propone di postare su Twitter il risultato: sono stato offline 150 minuti! Durare, vecchio grande obiettivo in molti settori decisivi della vita, anche qui è motivo d’orgoglio.

Qualunque sia il motivo per cui Freedom funziona, devo dire una cosa su come funziona: quando si cerca non dico di smettere di fumare, ma di fumare meno, c’è il momento in cui si smette di comprare le sigarette e poi ci si ritrova in una situazione in cui non le si può né scroccare né comprare – mettiamo a casa di non fumatori a tarda sera. Sovrappensiero ci si tocca le tasche per rispondere alla piccola fitta nel petto che chiede una sigaretta, e si scopre di non averne, e che nessuno le ha. Con una specie di doloroso sollievo ci si accorge di aver appena tolto una sigaretta al computo della giornata. Con Freedom si prova la stessa sensazione. Stai scrivendo, e la descrizione di un divano ti ricorda che devi comprare un divano letto: le dita già corrono all’icona di Chrome sul dock in basso nello schermo, la mente già visualizza il sito di Ikea, poi di colpo ci si accorge che non si può navigare, e si prova una sensazione molto particolare: è come se nel petto si sentisse un vuoto, ma un vuoto consolante, dolce, liberatorio. Le manine avide che ti partono dal cuore non riescono più ad afferrare, e si calmano. Il tempo successivo è una benedizione, il corpo sente una leggera botta di endorfine, il lavoro è più bello.

Sul sito si può acquistare in bundle una seconda applicazione: si chiama Anti-Social, e invece di bloccare la rete intera blocca i social network e, su richiesta, i tuoi siti tossici, quelli a cui vai per il cosiddetto giro delle sette chiese, la navigata inutile di ogni pausa dal lavoro: la mia è fatta da gazzetta, espn, repubblica, pitchfork, new musical express, avclub. Basta inserirli nella lista, e non compariranno più per tutti i minuti in cui chiedi ad Anti-Social di salvarti. L’ho comprata per quando devo lavorare facendo ricerche su internet.

Uno dei grandi momenti dell’anno, nella mia famiglia borghese votata al culto del merito, era l’acquisto della cancelleria. Un nuovo astuccio, la matita, le penne, la gomma da cancellare, il temperamatite, il righello, i quaderni: stringendo nelle mani l’attrezzatura nuova provavo per tutto settembre la sensazione che sarei stato uno studente migliore, che con quegli attrezzi nuovi così puliti avrei finalmente avuto un Metodo di Studio. Poi la gomma si anneriva, la matita si spuntava, il temperino si perdeva, la squadra si rompeva, la penna la mangiucchiavo e sul quaderno ci finivano i soliti compiti fatti la mattina alle otto.

Ma non contava niente, l’Italia non è la Francia, in questo paese non ti selezionano a tredici anni: a malapena lo fanno a trenta. Però forse a trenta conta cominciare settembre con un po’ di voglia di vivere e di dignità: passare la mattina senza aver letto tutti gli aggiornamenti di tutti gli amici e tutte le notizie di mercato e tutte le interviste a Zeman è una felicissima novità.

(Questo pezzo è stato scritto sotto l’effetto di Anti-Social.)

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