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In Giappone c’è una mascotte per combattere il Coronavirus
Hello Kitty è famosa in tutto il mondo, ma ci sono molte altre creature illustrate che popolano la vita quotidiana dei cittadini giapponesi, anche se noi non le conosciamo. Piccoli sacchi di immondizia viventi che esortano i cittadini a non lasciare in giro i rifiuti, tsunami simpatici che avvertono i residenti di allontanarsi dalle coste pericolose. Ogni prefettura ha la sua cheerleader, solitamente una personificazione stravagante di un piatto regionale o di un’attrazione turistica. E poi c’è l’ufficio nazionale di informazione sulla quarantena, che fornisce consulenza sulle procedure doganali. «Alla fine del 2019, con tempismo inquietante», racconta Matt Alt sul New Yorker, «ha debuttato la prima mascotte ufficiale di quarantena al mondo».
Amabié (si chiama così) non è una novità, anzi: ha origini antichissime. La sua immagine è apparsa per la prima volta in una primordiale forma di giornale giapponese noto come kawaraban, nel 1846. È una creatura a tre zampe simile a una sirena coperta di squame, con la testa di un uccello sormontata da lucenti ciocche di capelli. L’articolo che accompagna l’illustrazione descrive la scoperta di Amabié, da parte di un ufficiale che lo trovò al largo della costa di Kyushu, dopo essere stato mandato in mare per indagare su una strana luce. La creatura gli disse il suo nome e profetizzò un buon raccolto. «Se dovesse arrivare un’epidemia», si dice che abbia pronunciato, «disegnami e mostrami al tuo popolo». E poi scomparve sotto le onde.
Alla fine di febbraio 2020, un artista manga di nome Hide Shigeoka ha twittato un’illustrazione della creatura con la didascalia: “Una nuova contromisura al Coronavirus”, aggiungendo l’hashtag #amabie. Altri artisti hanno contribuito con i loro ritratti. All’inizio di marzo, molti di questi Amabié sono stati ritwittati decine di migliaia di volte, anche da nuovi fan fuori dal Giappone. La direttiva di Amabié di condividere il suo disegno in caso di epidemia ha assunto un nuovo significato nell’era dei social media e del Coronavirus.

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