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Il quotidiano del Comitato centrale del Partito comunista cinese ha fatto firmare un articolo a LeBron James, che però non lo ha mai scritto È vero che viviamo in un mondo strano, ma ancora non così strano da avere LeBron James tra gli editorialisti del Quotidiano del popolo.

“Bandersnatch” è il futuro della tv?

Osservazioni sul nuovo discusso episodio interattivo di Black Mirror.

02 Gennaio 2019

La storia è sempre pronta, aspetta solo che qualcuno la scopra. Lo scrittore non deve perdere tempo a compiacersi di fronte a una bella pagina, al contrario, dovrebbe essere disposto a sacrificarla, qualora non risulti necessaria al libro che sta scrivendo. Compito dello scrittore è accertarsi di essere sulla strada giusta, nel caso –molto frequente – ne abbia imboccata una sbagliata, può sempre tornare indietro. Tutte le scelte comportano conseguenze, specie le più insignificanti… . Così la pensava un celebre editor, cui sarebbe piaciuto da pazzi parlare di “Bandersnatch”, il film interattivo di Black Mirror.  Lo spettatore qui è chiamato a far la parte dello scrittore come lo intendeva lui, più o meno. Per certi versi è obbligato a svelare passo dopo passo, o meglio, mossa dopo mossa, un percorso narrativo che già esiste.

Si può scegliere tra diverse opzioni che portano a due veri finali e a una serie di finalini anticipati che in realtà si rivelano essere passi falsi.  “Bandersnatch” è un gioco che si può ripetere, anzi, è proprio la ripetizione il punto: «Over and over and over/like a monkey with a miniature cymbal/ the joy of repetition really is in you…», come nel pezzo degli Hot Chip anche nell’ennesima sfida, claustrofobica e cupa, di Black Mirror si va avanti e indietro a oltranza.

Il lato “monkey”, ripetitivo, è quello che di solito distingue l’autore dal mero esecutore, in questo caso le due funzioni si mescolano: l’utente creativo, per arrivare in fondo all’opera, deve munirsi della pazienza indolente ma competitiva che, ad esempio, il consumatore di videogame conosce bene, perché anche di questo si tratta: di un videogame filmato. Non a caso “Bandersnatch”  è ambientato in pieni anni Ottanta. Per una volta c’è una ragione valida, connaturata alla storia, che ci riporta all’era tremenda della lacca.

Stefan, il protagonista, si sveglia sulle note dei Frankie Goes To Hollywood, malgrado la rassicurate messinscena vintage, il ragazzo, si capisce subito, è schiacciato da un considerevole carico di personal issues, del genere che attacca il programmatore isolato e ossessivo. Stefan è orfano di madre, e vive con il padre, un personaggio che sulle prime sembra scippato al cast di Derrick. Più irritato che preoccupato dallo stato mentale del figlio, pare si aggiri sempre in casa con un trench (un trench spirituale), così come pare intento a piazzare cimici e archiviare videocassette, a rilevare impronte, a mettere roba misteriosa sottochiave.

C’è da dire che è un uomo altissimo, dunque risulta spesso intrappolato in una casetta di bambole, ogni tanto si abbassa a scrutare la tana in cui si è rinchiuso il figlio. Il padre non è niente male e la tentazione che prova l’utente/autore è quella di controllare lui, anziché il suo più prevedibile erede. Ma il destino di questa figura fuori contesto e fuori misura non ci deve interessare, gli dobbiamo far fare una gran brutta fine: il nostro compito è seguire Stefan. Il ragazzo sta programmando un nuovo gioco basato su Bandersnatch, romanzo di culto che si ramifica nella testa di chi lo legge, suggerendogli molteplici soluzioni e vie di fuga. L’autore è un “genio” che ha decapitato la moglie. Anche lui è un personaggio promettente, mi pare si chiami Jerome Davies o qualcosa del genere, somiglia un po’ a Jerry Garcia e ammicca, insensatamente di buonumore, dalle pagine insanguinate della sua biografia, testo che il ragazzo consulta di continuo. Però anche Jerry/Jerome bisogna lasciarlo perdere, per tornare a occuparsi del vettore principale della storia. Stefan presenta il suo progetto, ancora da sviluppare, al pioniere di una factory inglese, «la Motown dei giochi». In ufficio, oltre all’affarista e corruttore di coscienze nerd, lo attende Colin, quel Colin, massima autorità in materia di programmazione. Colin ha una sua drastica visione che non tarderà ad apparire: il governo ci seda, mette la droga nel cibo, mentre lo spirito là fuori (fuori dove?) ci indirizza, non esiste il libero arbitrio, i déjà vu non sono altro che occasioni mancate di tornare indietro. Un po’ come gli starnuti abortiti, viene da pensare a chi non è tanto sensibile al fascino della paranoia eletta a religione. Colin è una miniera di teorie cospirative, un carattere molto contemporaneo, mascherato da Billy Idol. Volendo, si possono trovare molte altre cosette comiche, ridicolizzabili, in “Bandersnatch”, ma ce ne sono altrettante che invece vanno prese molto sul serio.

“Bandersnatch” è il compendio perfetto dello spirito del tempo: distopie, perdita di controllo sulla propria mente, manipolazione in tutte le salse, delusional disorder, un modo carino di chiamare la schizofrenia, che ha guadagnato terreno sull’ormai banale disturbo bipolare. Svetta la tentazione di alterare il passato, di metterci le mani, con la scusa che il tempo non esiste, questa è l’idea che sta alla base del film: Stefan in fondo è manipolato da noi, gli utenti del futuro, noi scegliamo al suo posto. Viceversa, la storia rappresenta la nostra illusione di creare, essendo in realtà controllati e diretti dal sistema.

Infine veniamo alla questione che è davvero in ballo: “Bandersnatch”, o meglio, Netflix con il suo software interattivo, ha aperto le porte a una forma completamente nuova di intrattenimento? Di sicuro ha risposto a un’esigenza di consumo che circola da almeno un decennio, quella di entrare nell’opera, di non accontentarsi della fruizione passiva classica: non esiste più una forma chiusa, chiusa una volta per tutte, qualsiasi narrazione si può riaprire, ritoccare, insomma può ricominciare. Se sia venuta prima la rinnovata passione per la serialità, per il racconto a puntate, o la perdita del fascino che un tempo esercitava su di noi un racconto finito, ripercorribile ma inalterabile, è un po’ come la storia dell’uovo e la gallina. Complici della trasformazione sono stati non solo i videogiochi, ma i giochi di ruolo e la galassia della fanfiction che riambienta un prototipo un po’ dove vuole. Tutti questi fattori messi insieme hanno contribuito all’invenzione del consumatore creativo. È il nuovo target e odiarlo non serve a niente.

“Bandersnatch” è il prodotto di una fase ancora sperimentale. Agli amanti del videogame manca un po’ di adrenalina, sulla piattaforma non si rischia niente, né si vince. L’eliminazione – ovvero il concetto di morte, l’unico ammesso nell’ambiente – è puntualmente condonata, non c’è competizione. L’emozione prevalente di chi gioca non è suscitata da quel che vede accadere sullo schermo, resta al di qua dello schermo, tutta rivolta a quel se stesso che può vincere o perdere. Mentre un rischio ragionevole è che il consumatore creativo si rompa dopo un po’, e preferisca tornare a sdraiarsi sul divano, senza dover rispondere a domande cruciali del tipo: Bronski Beat o Kajagoogoo? La partita è aperta, e solo all’inizio. Staremo a vedere, nel frattempo guardatevi il convenzionale Derry Girls e provate a metterci anche solo un dito dentro: quelle ragazzine nordirlandesi, fenomenali, mordono.

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