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Il New Yorker è andato nel panico per un invito a Steve Bannon

04 Settembre 2018

Tra circa un mese, dal 5 al 7 ottobre, il New Yorker tiene il suo famoso festival, uno degli eventi culturali e giornalistici più importanti d’America. La lista degli invitati è stata annunciata ieri: ci sono scrittori famosi come Haruki Murakami e Zadie Smith, e note personalità dello spettacolo come Maggie Gyllenhaal e Jimmy Fallon. Un nome però ha sollevato un polverone: Steve Bannon, lo stratega ed ex consigliere di Donald Trump che adesso è impegnato nel lancio e nel sostegno della destra radicale in Europa.

Bannon avrebbe dovuto prendere parte al festival con un’intervista live con David Remnick, che dirige il New Yorker da vent’anni e ha reso il magazine quello che è oggi (in occasione del ventesimo anniversario, avevamo pubblicato un’intervista a Remnick sul numero 35 di Studio). Ben presto in molti lettori avevano protestato online, inoltre pare anche alcuni giornalisti del New Yorker abbiano protestato privatamente col loro direttore: perché dare spazio a un estremista di destra come Bannon? Almeno una celebre firma del magazine, il premio Pulizter Kathryn Schulz, aveva espresso il suo dissenso pubblicamente.  ‏

Risultato? Il New Yorker ha cambiato idea e nel giro di 24 ore ha deciso di disdire l’invito a Bannon. Le motivazioni – sia della decisione di invitarlo e della decisione di disinvitarlo – sono state spiegate dallo stesso Remnick in una nota. Che in soldoni difende la bontà della decisione di «confrontarsi con qualcuno come Bannon» senza per questo diventare dei megafoni della propaganda trumpiana. Poi dice di non volere che «lettori ben intenzionati e membri del mio staff pensino che abbia ignorato le loro preoccupazioni». Inoltre riconosce che, rispetto ad altri format come un’intervista giornalistica o un articolo profilo, il festival non è la sede migliore per confrontarsi con Bannon, anche perché partecipare al festival comporterebbe un onorario.

«La reazione sui social media è stata molto critica e gran parte della rabbia e dello sgomento erano diretti a me personalmente. Alcuni membri della redazione, inoltre, mi hanno contattato per dirmi che non erano d’accordo con l’invito, specialmente in occasione del festival», scrive. Per poi aggiungere: «L’argomento principale per non confrontarsi con qualcuno come Bannon era che gli avremmo fornito una piattaforma che lui avrebbe potuto utilizzare per diffondere, senza filtri, “idee” come razzismo, suprematismo bianco, antisemitismo e illiberalismo».

Ma condurre un’intervista con uno degli strateghi dell’elezione di Trump, «non significa affatto tirarlo fuori dall’oscurità», prosegue Remnick, riferendosi al fatto che Bannon è un personaggio già noto. «Il punto di un’intervista, un’intervista rigorosa, è mettere sotto pressione la visione dell’intervistato». Il direttore non si fa «nessuna illusione» sul fatto che Bannon cambi idea o si vergogni. Però cita Oriana Fallaci che «nelle sue Intervista con la Storia, una serie di incontri con Kissinger, l’ayatollah Khomeini e altri, ci ha aiutati a comprendere meglio queste figure». La Fallaci, aggiunge Remnick, «certamente non ha cambiato il punto di vista dei suoi intervistati, ma ci ha aiutati a capire perché sono lì».

L’intera vicenda ha toccato molti nervi scoperti. In questi mesi si sta discutendo molto sulla tendenza, o presunta tale, dei media liberali di piegarsi alle pressioni delle persone indignate su Twitter: era capitato per esempio quando l’Atlantic aveva assunto un controverso editorialista conservatore e poi l’aveva licenziato a seguito alle proteste su Twitter. Un tema altrettanto caldo è delicato, poi, riguarda il come confrontarsi con esponenti radicali senza legittimare le loro idee: era successo, qualcuno ricorderà, quando il New York Times aveva profilato un suprematista bianco, e fu un flop (anche perché non aggiungeva gran che al dibattito). Meno importante, ma pur sempre rilevante qui, è poi tutto il dibattito su Bannon: secondo alcuni analisti, da quando ha litigato con Trump non sarebbe più una figura degna di nota di per sé, ma i media sarebbero colpevoli di continuare a renderlo tale.

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