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Rick Owens, disumano

Inaugura oggi presso la Triennale di Milano la più grande retrospettiva dedicata al designer, da lui curata. Ecco perché vederla.

15 Dicembre 2017

Si dice spesso che non esistono più i grandi designer, e che le sfilate oggi siano perlopiù reiterazione di un rito svuotato di senso. Se anche le location sono diventate sempre più spettacolari e ci si imbatte di tanto in tanto in collezioni interessanti, è sempre più raro trovarsi di fronte a uno show di cui ci si può innamorare, letteralmente, perché riesce ad andare oltre il fatto di essere una presentazione, più o meno grandiosa, di vestiti. Per chi scrive, quello è il caso della Primavera-Estate 2014 di Rick Owens, Vicious, dove quattro gruppi di atlete specializzate in stepping (una particolare forma di step-dance) sono scese in passerella al posto delle modelle. La disciplina che praticano rimescola al suo interno molti elementi di break-dance, marcia, tap dance e danze africane. Per lo show di Owens, ad esempio, la coreografa Lauretta Malloy Noble e sua figlia LeeAnet hanno aggiunto passi Zulu. L’impatto era fortissimo. Intanto perché le danzatrici erano molto lontane dai canoni estetici che siamo abituati ad associare alle indossatrici, quindi perché lo stesso rituale della sfilata era rotto da dentro, o meglio, portato all’estremo: il catwalking da felino e sinuoso era diventato un incedere militare, l’espressione seriosa si era trasformata in smorfia da sforzo, una certa idea di femminilità completamente riscritta.

Rick Owens Triennale 2

È il settembre 2013, il movimento Black Lives Matter si costituisce solo qualche mese prima, a luglio, ed esploderà con le proteste di Ferguson e New York nel 2014, mentre Owens, un americano bianco con madre di origine messicana, trapiantato a Parigi, si chiedeva in che modo «si potesse parlare di razza senza sembrare paternalistico», come dichiarato in una bella intervista su AnOther Magazine. Vicious, risultato di un casting di cinque mesi in giro per l’America, è stata la sua risposta, in pieno stile Owens: le linee severe degli abiti, i blocchi monocromatici, le sneakers che ridisegnano la silhouette. In questo particolare show, va detto, è sensibilmente smussata una delle caratteristiche fondamentali della sua moda, quella del movimento cristallizzato in intricate forme di drappeggio e avvitamenti che ridefiniscono lo spazio intorno al corpo e all’abito.

Basta riguardare le ultime collezioni donna e/o uomo Primavera-Estate 2018 per rendersene conto. Non è raro, infatti, che i suoi pezzi sembrino appartenere più alle sale di un museo che a un guardaroba, ecco perché la prima reazione a Subhuman Inhuman Superhuman, la retrospettiva che inaugura oggi presso la Triennale di Milano e sarà visitabile fino al prossimo 25 marzo, è stata salutata da molti con entusiasmo, perché era ora che qualcuno dedicasse una mostra a Rick Owens. Naturalmente, quel qualcuno non poteva essere che lui stesso e in questo la scelta della curatrice moda della Triennale Eleonora Fiorani, che ha invitato il designer a Milano e gli ha lasciato carta bianca sulla selezione dei materiali e il loro conseguente allestimento, è stata particolarmente azzeccata. Assieme al suo team, Owens ha portato oltre cento oggetti tra abiti, accessori, arredi, opere grafiche e pubblicazioni che raccontano una carriera iniziata nel 1994 con il lancio, a Los Angeles, del marchio che porta il suo nome.

Rick Owens Triennale 3

L’intero spazio espositivo è attraversato da un’installazione scultorea minacciosa e avveniristica come tutto l’universo estetico del designer, dove l’antichità e il futuribile si intrecciano continuamente alle sue idee di identità e superamento del genere, per dare forma a strane creature che assomigliano moltissimo a lui e alla moglie-musa di origine francese Michèle Lamy, capostipiti di quella che viene definita quasi una setta, fatta di persone che vestono religiosamente Owens dalla testa ai piedi, etichettati spesso come freak, goth, outsider. In realtà, la sua indagine stilistica va ben oltre il sentimento adolescenziale del “misfit”, del sentirsi fuori luogo, e ha disegnato negli anni la parabola felice di uno dei pochi marchi rimasti indipendenti in tutta l’industria del lusso dominata dalle conglomerate. Il suo business si aggira oggi intorno ai cento milioni di dollari in termini di ricavi annuali, di cui lui possiede l’80% (il restante 20% è diviso tra i soci Luca Ruggeri ed Elsa Lanzo). Attraverso la società Owenscorp, il designer controlla anche manifattura di Concordia sulla Secchia, in provincia di Modena, e quella in Moldavia, dirige due linee secondarie (Lilies e DRKSHDW) e una di pellicce, ha all’attivo una delle collaborazioni più fruttuose con adidas: le sue sneakers sono praticamente pezzi da collezione. Più volte ha dichiarato di non sentire la pressione di cui gli altri designer si lamentano, perché è schiavo solamente delle sue ossessioni, e ha saputo intelligentemente dosare i capi-scultura ai bestseller da negozio.

Rick Owens Triennale 4

Classe 1962, californiano originario di Porterville, nella San Joaquin Valley, Owens è il figlio unico di un assistente sociale, John, e Connie, maestra elementare che gli ha insegnamento i rudimenti del mestiere di sarto. Per volere del padre, in casa Owens la prima tv è arrivata al compimento dei suoi sedici anni. Al giovane Rick, iscritto alla scuola cattolica, non rimane che ripiegare sulle scelte letterarie e musicali del suo vecchio, che gli faceva leggere Aristotele, Confucio, Huysmans, Pierre Loti e Marco Aurelio fra gli altri e ascoltare Debussy, Mahler e Wagner. In un profilo apparso sul New Yorker nel 2008, il designer ha ironicamente definito il padre «il più adorabile fra i nazisti», ammettendo poi come quella sorta di indottrinamento forzato avesse avuto effetti insperati sulla sua formazione artistica e personale.

Dopo aver frequentato per due anni l’Accademia d’arte Otis/Parsons di Los Angeles, decide di interrompere gli studi perché sente di non essere «abbastanza intellettuale» per diventare un artista, e si iscrive perciò a un corso di modellistica. Quindi lavora per molti anni nell’industria dei falsi, esperienza che gli insegna a maneggiare in prima persona le sue creazioni. Lancia il suo marchio con quello che è ancora oggi il suo capo-icona, la giacca in pelle invecchiata – effetto da lui ottenuto sottoponendo il capo a lavaggi estremi – dalle linee asimmetriche. A metà degli anni Novanta la indossano Courtney Love, Helena Bonham-Carter e Angelina Jolie, mentre Owens e Lamy sono la coppia simbolo della Los Angeles underground. Grazie alla mediazione della fashion editor Lisa Love, nel 2001 la giacca di pelle arriva sulla copertina di Vogue US, indossata da Kate Moss. Nel 2002 sfila per la prima volta a New York, sostenuto da Vogue e dall’EBA, agenzia italiana che si occupa della distribuzione internazionale di designer europei, guidata da Ruggeri e Lanzo. Nel 2003, ripulito dalla dipendenza da alcol e droghe, si trasferisce a Parigi con Lamy, che sposa nel 2006.

Nella capitale francese, trasferisce il suo quartier generale nell’ex sede del Partito socialista, nel Settimo arrodissement, lo stesso dove François Mitterrand aveva il suo ufficio personale. La casa/atelier è il trionfo della visione Rick Owens, con le pareti spogliate della carta da parati, le tubature a vista e gli enormi bagni in marmo, che riprendono il tema preferito della sua fortunata collezione di arredi, tanto magniloquenti quanto pervasi dalla sottile ironia che caratterizza tutta la sua opera. La stessa ironia, mista a quella forma di tenerezza che solo gli strambi possiedono, con cui si è fatto riprendere dal New York Times mentre si tinge, da solo, i capelli di nero corvino. Come a ricordarci che, in qualche modo, umano lo è anche lui.

Tutte le immagini sono tratte dalla mostra “Subhuman Inhuman Superhuman”, visitabile presso la Triennale di Milano fino al 25 marzo 2018. Crediti: OWENSCORP.
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