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Hollywood non riesce a capire se Una battaglia dopo l’altra è un flop o un successo Il film di Anderson sta incassando molto più del previsto, ma per il produttore Warner Bros. resterà una perdita di 100 milioni di dollari. 
La Corte di giustizia europea ha stabilito che gli animali sono bagagli e quindi può capitare che le compagnie aeree li perdano Il risarcimento per il loro smarrimento è quindi lo stesso di quello per una valigia, dice una sentenza della Corte di giustizia dell'Unione Europea.
È uscito il memoir postumo di Virginia Giuffre, la principale accusatrice di Jeffrey Epstein Si intitola Nobody’s Girl e racconta tutti gli abusi e le violenze subiti da Giuffré per mano di Epstein e dei suoi "clienti".
È morto Paul Daniel “Ace” Frehley, il fondatore e primo chitarrista dei KISS Spaceman, l'altro nome con cui era conosciuto, aveva 74 anni e fino all'ultimo ha continuato a suonare dal vivo.
Dell’attentato a Sigfrido Ranucci sta parlando molto anche la stampa estera La notizia è stata ripresa e approfondita da Le Monde, il New York Times, il Washington Post, Euronews e l’agenzia di stampa Reuters.
Oltre alle bandiere di One Piece, nelle proteste in Usa è spuntato un altro strano simbolo: i costumi gonfiabili da animale Costumi da rana, da dinosauro, da unicorno: se ne vedono diversi in tutte le città in cui si protesta con Trump e contro l'Ice.
Secondo Christopher Nolan, non c’è un attore che quest’anno abbia offerto un’interpretazione migliore di The Rock in The Smashing Machine Quello del regista è il più importante endorsement ricevuto da The Rock nella sua rincorsa all'Oscar per il Miglior attore protagonista.
Dopo 65 anni di pubblicazione, Il Vernacoliere chiude ma non esclude il ritorno Lo ha annunciato su Facebook il fondatore e direttore Mario Cardinali, che ha detto di essere «un po' stanchino» e spiegato la situazione di crisi del giornale.

In the naming of

Come cambiare nome a un'azienda, a un'idea, a un business: dai primi passi di Coca-Cola in Cina alla nascita di Kering dalle "ceneri" della Ppr.

07 Maggio 2013

Partiamo subito con una notizia di cronaca. Dal 18 giugno il polo del lusso di proprietà francese PPR cambierà nome e si chiamerà Kering. La decisone è stata, in un certo senso, obbligata. Il gruppo è nato come polo della distribuzione, PPR sta infatti per Pinault (dal nome della famiglia che guida il gruppo) Printemps Redoute, e quest’ultimi sono i nomi delle insegne di distribuzione che François Henri Pinault ha ceduto negli ultimi anni. Da qui la scelta di abbandonare l’acronimo e di scegliere un nome che meglio rifletta il disimpegno dalla distribuzione e la concentrazione sul lusso e sport/lifestyle: oggi Kering/PPR possiede marchi del luxury come Gucci, Bottega Veneta, Saint Laurent e Brioni, e dello sportswear come Puma e Volcom. Kering è una parola di fantasia ma con echi anglofoni che nella sua pronuncia rimanda a un messaggio di cura e attenzione, con in più la k che conferisce solidità e rimanda anche alle origini della famiglia Pinault (ker in bretone significa casa, posto dove vivere). Insieme al nome c’è anche un nuovo logo, una civetta stilizzata che, nelle intenzioni, non vuole avere a che fare con civetterie e vanità, ma con il simbolo di saggezza e con la faccia a forma di cuore che significa empatia. E c’è anche un claim, «empowering imagination» (potere all’immaginazione) con l’obiettivo di incoraggiare la fantasia e il lato creativo.

Ma concentriamoci sul nome che si inserisce perfettamente in un filone già piuttosto consolidato nella pratica odierna del brand naming, in linea con il cambiamento dei modelli di consumo e del mutato atteggiamento delle persone. Se è vero che oggi a un prodotto non si chiede più di comunicare solo potere, successo e immagine, ma anche valori come intimità, benessere e sostenibilità, allora anche il nome da attribuire ai prodotti si muoverà verso questa direzione, così molti nuovi brand hanno nomi che trasmettono un senso di protezione e vicinanza, delicatezza e prossimità. Siamo arrivati al punto che sempre più spesso i nomi dei nuovi brand sono nomi propri di persone. Come Zoe, la nuova auto elettrica di Renualt, oppure Italo, la seconda compagnia italiana di trasporto su rotaia.

Piccolo inciso: ho partecipato più di una volta alla creazione di nomi di brand di prodotti e aziende (e anche titoli di libri e dischi), quindi non solo penso di conoscere piuttosto bene la materia ma ho maturato nel tempo anche una sorta di ossessione verso “i nomi delle cose” al punto da boicottare irrazionalmente dei festival musicali con un ottimo cartellone per colpa del nome che trovo sbagliato, oppure scegliere, a parità di condizioni, la banca per il nome e per il logo.

Circa la metà dei brand stranieri che entrano in Cina sono tradotti foneticamente, come ad esempio Ferrari (“Fe la le”) o Nokia (“no ji ya”), quindi attraverso dei suoni simili, anche se non proprio uguali.

Ma dicevamo. La scelta del brand naming è frutto di un processo complesso che ha poco a che vedere con l’intuizione, con il lampo di genio improvviso o con i maledetti focus group, e molto con un articolato lavoro di analisi, un processo strategico e metodico. Strategico perché il nome di un brand, a differenza dello slogan di una campagna pubblicitaria, è destinato a durare nel lungo periodo e poi perché il nome è alla base di posizionamento e di comunicazione della marca, ed è capace di indebolire o consolidare il complesso puzzle del branding. Metodico perché la scelta del nome dipende da un sacco di fattori: la disponibilità della proprietà intellettuale (nome ma anche dominio sul web), il significato intrinseco, l’espressione fonetica e la capacità di comunicare a livello internazionale.

Proprio su questi ultimi punti ci sono un sacco di aneddoti che riguardano anche brand globali e blasonati che, proprio per colpa del nome, hanno avuto parecchie barriere all’entrata in paesi che un tempo chiamavano in via di sviluppo e che oggi hanno in mano il pallino del business, tipo la Cina.

Parliamo, ad esempio, di traduzione di brand o prodotti occidentali in ideogrammi: se il marchio esprime un valore o ha un senso compiuto, la traduzione risulta piuttosto semplice, ma se, come spesso capita, il nome dell’azienda deriva dalla città d’origine, o dal suo fondatore, o è semplicemente un nome di fantasia, allora il gioco si fa duro. Mentre i linguaggi occidentali codificano le parole in scrittura, in Cina ogni ideogramma (circa 40.000 caratteri) rappresenta una parola, è necessario quindi decidere come dovrà essere tradotto il marchio che entra in Cina sia foneticamente sia visualmente. Circa la metà dei brand stranieri che entrano in Cina sono tradotti foneticamente, come ad esempio Ferrari (“Fe la le”) o Nokia (“no ji ya”), quindi attraverso dei suoni simili, anche se non proprio uguali. L’altra metà dei marchi stranieri viene tradotto letteralmente come Shell (“bei ke”, conchiglia) e Nestlè (“que chao” cfr. nido di rondine).

All’inizio la Coca-Cola divenne in cinese “un cavallo femmina legato con la cera”. Puro nonsense. Solo più tardi i responsabili marketing di Atlanta riuscirono a trasformare il proprio marchio con una traduzione più appropriata.

Vale la pena raccontare il caso di Coca-Cola, che nel 1928 rischiò di rimanere danneggiata dalla traduzione del proprio nome. Poiché Coca-Cola è un nome privo di significato, il gruppo di Atlanta prima di entrare nel mercato cinese cercò una traduzione che ne riproducesse il suono: scoprì però che vi erano circa 200 ideogrammi che potevano suonare come “ko ka ko la”. Mentre gli americani cercavano una soddisfacente combinazione di simboli che rappresentassero graficamente il proprio nome, gli importatori cinesi decisero di creare un marchio combinando caratteri che suonassero bene, senza tuttavia badare al significato nella forma scritta. Così Coca-Cola divenne in cinese “un cavallo femmina legato con la cera”. Puro nonsense. Solo più tardi i responsabili marketing di Atlanta riuscirono a trasformare il proprio marchio con una traduzione più appropriata, che abbinasse al suono anche un significato coerente al prodotto. Così venne scelto la traduzione “qualcosa che fa resuscitare la bocca”.

Ma torniamo ai confini di casa nostra. Oggi sono varie le tendenze in atto sul naming: i nomi altisonanti e autocelebrativi tipo Pioneer o Millionaire non vanno più, si prediligono invece nomi semplici, veloci, facilmente usabili sulla rete e che favoriscano una sintesi: così Oviesse diventa OVS, Motorola si riduce in Moto e Caterpillar in Cat. Non sempre però è facile trovare nomi corti disponibili e quindi, per contro, si tende a creare nomi di fusione tipo Pinterest (formato da Pin e Interest) oppure nomi che sappiano raccontare, non in modo didascalico o descrittivo, ma andando dritto alla promessa con un nome fortemente distintivo. Facile a dirlo, meno a farlo.

Per essere chiari, “Divani & Divani” è un nome sbagliato anche perché non si può impedire un’altra azienda di usare la stessa parola, oppure “Perlana” perché poi occorreva una pubblicità a puntualizzare che il lavaggio non è solo «per il lavaggio della lana».

Ovviamente la cosa migliore è osare, trovare un parola unica, bella da pronunciare, ricordabile, il cui accostamento delle lettere sia facilmente riconoscibile e leggibile, che diventi suono e che magari, se il prodotto funziona e ha successo, si trasformi in neologismo (vedi Google, Skype, Twitter) con le antipatiche coniugazioni, ma che sono il segno indelebile del successo.

Immagine: un locale con l’insegna in cinese di Coca-Cola / Wikimedia

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